- LE PRIME AGGREGAZIONI
- DEI LIGURI
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- I. Le prime origini
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- La stirpe dei Liguri
- Estratto da Guido Zunino (www.vegiazena.it)
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- I PRIMI ABITANTI DEI CASTELLARI
- E DI GENOVA
- Estratto da Angiolo Del Lucchese, I primi abitanti di Genova, in Genova dalle origini all’anno mille, a cura di Melli P., SAGEP, 2014.
- VIII – VII millennio a.C.
- SITO MESOLITICO A FERRADA DI MOCONESI
- 4.790 e 4.540 anni a.C.
- RITROVAMENTI IN PIAZZA BRIGNOLE
- E PIAZZA DELLE VITTORIA
- XV-XII secolo a.C.
- IL CASTELLARO DI CAMOGLI
- XV-XIII secolo a.C.
- Circa IX – X secolo a.C. IL CASTELLARO DI USCIO Ad Uscio l’occupazione è invece ascrivibile a fasi avanzate del Bronzo Finale e interessò tutta l’area sommitale, sistemata a terrazzamenti sostenuti da bassi muri a secco (fig. 1, ima scavo). Tre di queste strutture sono state indagate dallo scavo: le due inferiori mostrano indizi di frequentazione domestica, mentre per quella superiore, prossima al crinale, sono state ipotizzate funzioni agricole. Anche le due inferiori manifestano evidenze di usi differenziati: il terrazzamento inferiore e più grande ha restituito, molti resti di macine, reperti riferibili a tessitura e filatura e vasi di grosse dimensioni (dolia) generalmente riferiti alla conservazione di derrate, mentre quello superiore ha restituito maggiore quantità di ceramica fine e d’uso domestico; si potrebbero quindi distinguere nell’ambito dell’abitazione un’area di lavoro da una più strettamente residenziale. I resti carpologici sono rappresentati in prevalenza da orzo, grano e fave, accompagnati da ghiande, probabilmente anch’esse destinate all’alimentazione umana. La presenza di metallo, ambra e pasta vitrea denotano una economia che ha superato il livello di sussistenza, mentre la tipologia dei bronzi sembra indiziare una metallurgia locale. Il sito di Uscio faceva probabilmente parte di un comprensorio sociopolitico comprendente anche il Tigullio, come suggerito dall’uso del gabbro come degrassante della ceramica, materiale proveniente dal settore orientale dell’area, sede anche delle risorse di minerale cuprifero. Ad Uscio furono rinvenute anche vestigia di frequentazioni precedenti: tracce di disboscamento e attività di caccia, attestate soprattutto da scarsa industria litica riferibile ad un periodo tra Mesolitico Recente e Neolitio Antico, e i resti di un insediamento, di lunga durata, riferibile all’avanzata età del Rame e al Bronzo Antico, con datazioni radiometriche tra 2500-1700 BC. In questo periodo venne insediata un’ampia area nella quale sono documentate attività di lavorazione di materiali come legno, osso e corno (tracce di usura sugli strumenti litici), preparazione di cibo e disboscamento, nell’ambito di un insediamento abitativo permanente o semipermancnte al centro di percorsi di crinale che potevano favorire lo spostamento di bestiame per attività di carattere pastorale, in una zona ben provvista di sorgenti. I dati botanici fanno ritenere probabile una frequentazione tra primavera e autunno per la coltivazione di legumi e cereali, incerto se praticata nelle immediate vicinanze. L’intervento umano nell’area si registra come consistente e ha lasciato tracce con abbondanti manufatti litici, ceramica, reperti metallici e numerosi semi e resti carboniosi. La lunga frequentazione ebbe effetti anche sull’equilibrio ambientale dell’area, causando episodi di dilavamento, che ebbero forse anche qualche influenza sull’abbandono del sito in un momento avanzato del Bronzo Antico. Anche in questo caso la presenza di gabbro come degrassante nella ceramica fa ritenere che il sito gravitasse prevalentemente verso l’area del Tigullio, caratterizzata da buona presenza di risorse cuprifere e, in zone più interne, del diaspro rosso utilizzato fino a questo periodo per la fabbricazione di punte di freccia. [ulteriori immagini saranno inserite appena verranno pronte] * * *
- I POPOLI LIGURI
- Estratto da Guido Zunino, www.vegiazena.it
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- L’ORIGINE DI GENOVA
- Estratto da Guido Zunino, www.vegiazena.it
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- GENOVA TOPOGRAFICA E IDROGRAFICA
LE PRIME AGGREGAZIONI
DEI LIGURI
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I. Le prime origini
Cenni storici illustrati e raccolti dal pittore Quinto Cenni (Milano) per conto del Sig. Dr. Cav. H. J. Vinkhuizen dell’Aia, Medico. http://digitalcollections.nypl.org/search/index?utf8=%E2%9C%93&keywords=genoa
Genova fondata 800 anni a.C.
Le origini di Genova, spogliate ormai di tutte le favole che le adornavano ed insieme le confondevano, sono ritenute dai più come anteriori di soltanto 47 anni a quelle di Roma, le quali – come si sa – sono anteriori a loro volta di 753 anni alla nostra Era Cristiana. Così Genova sarebbe stata fondata 800 anni precisi avanti Cristo. Suoi fondatori furono i Liguri, Genoati una delle tribù nelle quali si era diviso il gran popolo ligure dopo il suo arrivo in Italia.
Le origini dell’odierna Città Superba non sono adunque favolosamente antiche, ma sibene lo sono quelle dei Liguri che le diedero la vita.
I Liguri 5000 anni a.C.
I Liguri formavano una delle grandi tribù della razza ariana caucasica che dagl’altipiani centrali dell’Asia trasportarono le loro sedi nella nostra Europa. Ciò avvenne al tempo della pietra levigata, “la seconda cioè delle due”, l‘”Età della pietra”, vale a dire 5000 anni a.C. Il loro itinerario, presunto, è rappresentato nello schizzo qui contro, fatto sulla base di ciò che si sa o si suppone dalla maggioranza degli scrittori moderni.
Fig. 01. Itinerario dei Liguri.
Presa terra nel golfo, che dal loro nome fu poi detto “Ligusticus” essi devono naturalmente averne cacciati gl’ “Aborigeni”, quali, secondo l’opinione del Figuier ( A. Ghisleri, Atlantini Storici, … Età Romana) dovevano appartenere ad una razza affatto diversa, alla razza mongolica.
Tavola I. Sbarco dei Liguri – Età della pietra levigata. 5000 anni a.C. [La Tavola I fa parte di una numerosa serie di disegni colorati di Quinto Cenni di cui rimangono pochi esemplari digitalizzati dalla NYPL. La Tavola I non è presente nella NYPL]
La nostra Tavola I li dimostra appunto nella loro fuga su per i monti circostanti. E’ notte, la luna illumina la terra e dal nostro punto di vista, che sarebbe una delle pendici dei monti dei Ratti sulla sinistra del Bisagno, si vede benissimo il piccolo golfo, oggi porto di Genova, nel quale in allora il mare si addentrava di molto ed irregolarmente.
Resisi i Liguri padroni in tal modo del territorio, tosto vi si moltiplicarono, spargendosi a destra ed a sinistra lungo le due riviere e passando ancora al di là del soprastante Appennino. Lo schizzo qui contro dimostra i termini di questa loro invasione, le varie denominazioni assunte dalle varie tribù nelle quali essi si divisero e le città principali di ciascuna tribù.Fig.02. 5000 anni a.C. I popoli Liguri.
Etimologia della parola “Liguri”
Circa la denominaziome generale di “Liguri” cui il Micali [Micali G., Storia degli antichi popoli italiani, vol. II, cap. XVIII] aggiunge quello di “capillati” a motivo delle loro lunghe capigliature, Momsen la spiega per “abitatori dei monti”, mentre Pellentier da “Llg-guef trae “sedentari o abitatori stabili”, Freret da Lly-guer fa nascere “stabiliti presso il mare” e Bardetti da Lly-ger fa derivare “montneschi” o “montanari”. I Greci cioè gli Ellenici, che erano i “gazzettieri” dell’epoca li dissero semplicemente “Ausoni”.
Fig.03. 5000 anni a.C. Il tipo Ligure.
Comunque sia essi presentavano una bella razza, bruna, forte, con lunghe capigliature nere, sopraciglia arcuate, naso aquilino, mento ovale e occhi neri e profondi. Chi scrive ha assai spesso incontrato un tipo simile ancora esistente in Genova e che tiene alquanto dell’arabo e non esita a dichiararlo un tipo simpatico e forte.
Tavola II. Età del bronzo 4000 anni a.C. [La Tavola II non è presente nella NYPL]
La nostra Tavola II [disegno non presente nella NYPL] presenta codesti Liguri in pieno ed incontrastato possesso del Golfo. E’ ancora notte ma già i primi albori permettono di discernere i contorni del piccolo colle sul quale sono già piantare le loro abitazioni che verranno poi sostituite più tardi da altre più stabili là dove sorge oggi ancora la superba e vecchia torre degl’Embriaci. Un guerriero a cavallo si presenta armato e difeso da armi in bronzo metallo malleabile sostituito finalmente dopo ben 20 secoli alla non malleabile pietra.
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La stirpe dei Liguri
Estratto da Guido Zunino (www.vegiazena.it)
Tra il MESOLITICO e l’ ETA’ ENEA (o del Rame) la penisola italica venne occupata da stirpi meridionali di RAZZA BRUNA che così contribuirono alla nascita delle civiltà protostoriche, e prima dell’arrivo degli INDOEUROPEI in Italia si trovavano:
I SICULI = Sud Italia, Adriatico fino al Danubio
I LIGURI = Nord Italia, Tirreno, Provenza, Spagna
Gli antropologi hanno accertato che alla fine del periodo NEOLITICO (tra il III° e il II° millennio A.C.) il bacino del Mediterraneo era abitato da popolazioni indigene di precedente origine HOMO SAPIENS, quando sopraggiunsero tre successive migrazioni provenienti dalle pianure euroasiatiche (INDOEUROPEI), dalla Turchia (CAMITI) e dall’Arabia Saudita (SEMITI).
Gli INDOEUROPEI si diffusero in India, in Asia minore, in Europa.
I CAMITI si propagarono in nord Africa.
I SEMITI si stanziarono nell’Arabia Saudita fino al Mediterraneo.
Attraverso l’esame e lo studio delle varie matrici fonetiche delle lingue mediterranee antiche e moderne gli studiosi hanno potuto verificare come queste tre migrazioni abbiano dato origine in epoca storica a tre gruppi distinti di popolazioni, come indicato nella tabella a fianco.
Passiamo ora ad osservare che cosa è avvenuto sul territorio della penisola italica durante le ultime fasi preistoriche chiamate “Età della PIETRA” e quelle che comunemente vengono definite come le “Età dei METALLI”.
In particolare vediamo ora di puntualizzare quelle che furono le principali migrazioni delle popolazioni, non stanziate precedentemente nella penisola, ma che nei loro spostamenti si diressero verso l’Italia in varie epoche preistoriche, provenienti sia da territori centro-europei o da alcune zone limitrofe.
Alcuni importanti studiosi hanno accertato che i LIGURI, popolo mediterraneo, erano presenti e stanziati sul territorio che andava dalla Spagna, attraverso la Francia, sino al centro Italia isole comprese, già 10.000 anni fa, alla fine della glaciazione di WÜRM, ed erano specializzati nella caccia di orsi renne e cervi che migravano lungo le coste verso nord, alla ricerca di pascoli più freddi.
Per quanto riguarda la lingua parlata da queste popolazioni, molti storici asseriscono che fosse il “Leponzio”, originario delle genti stanziate vicino alle Alpi (da cui il nome di Alpi Lepontine), che si mischierà con il “Gallico” ed il “Celtico-Ispano” formando il “Proto-Celtico”, idiomi derivanti probabilmente da una unica radice fonica già preesistente alcuni secoli prima dell’arrivo delle popolazioni Etrusche e centro-italiche.
Non dobbiamo poi dimenticarci del sopraggiungere di nuove genti provenienti da località più distanti, come l’Asia Minore o il Nord Africa, verso questi territori, che appunto dopo fine della glaciazione, diventavano più temperati e perciò più popolabili.
ETA’ MESOLITICA (Intorno al 5.000 – 4.000 a.C.)
Gli IBERO-MARUSIANI (stirpe originaria dell’ARMENIA, CAUCASO-MAR NERO di cui ne esistono tracce tra i mediterranei dell’Egitto predinastico) giungendo dalla regione sahariana si spostano prima nella Spagna meridionale e in Portogallo, quindi nel sud della Francia, stanziandovisi in modo permanente.
Abili navigatori e commercianti, prima dei Fenici, gli IBERI stabilirono contatti mercantili anche con il nord Europa e le isole britanniche attraversando lo stretto di Gibilterra.
Con il loro insediamento gli IBERI costrinsero le popolazioni preesistenti, i LIGURI (carattere fisico: Dolico-Camecefalico=cranio lungo e basso) a spostarsi a loro volta verso nord, verso la Provenza, le pianure piemontesi e padane, le coste liguri e toscane del nord, la Corsica, il nord Sardegna, l’isola d’Elba.
Si può perciò affermare con certezza che in quel periodo i popoli LIGURI erano stanziati stabilmente nei territori Mediterranei che vanno dalla Spagna attraverso la Francia, alla pianura Padana, all’Emilia, e fino alla Toscana e parte dell’Umbria, comprese le isole maggiori del nord Tirreno. Territori che i LIGURI popoleranno a lungo fino all’arrivo dei CELTI, degli ETRUSCHI, dei ROMANI.
Questo spostamento costringerà a loro volta rare le popolazioni precedenti, composte da pochissime famiglie sparse ed isolate sul territorio con una cultura molto primitiva ed eterogenea di tipo ancora litico (Mustero-Grimaldino-Capsiano) prima, ad insediarsi all’interno delle pre-Alpi e delle valli dell’Appennino settentrionale nelle attuali: Piemonte, Liguria e nord Toscana, e poi ad integrarsi fondendosi con l’etnia dei LIGURI, chiamati in seguito anche AMBRONES (AMBRONI) perché dediti al commercio dell’AMBRA che si trovava, oltre che nel nord-Europa raggiungibile attraverso la valle del Rodano, nelle più vicine Dolomiti e di ottima qualità.
Migrazioni Danubiano-Balcaniche in Italia, prima dell’Età del Ferro
ETA’ NEO-ENEOLITICA o prima età del RAME (Tra il 3.000 e 1.800 a.C.)
I LIGURI-IBERI sono stanziati stabilmente anche nella pianura padana (ritrovamento dei primi oggetti in Rame), diffondendo la loro cultura e organizzazione sociale.
ETA’ del BRONZO Tra il 1.800 e il 1.200 a.C.)
I SABINI penetrando da nord lungo le valli dell’Adige e dell’Isarco giungono nella pianura Padana e i gruppi famigliari LIGURI e palafitticoli, ivi residenti, si spostano verso l’Adriatico e il centro Italia.
Di quello stesso periodo si trovano resti di TERRAMARE in Emilia e riscontri di cremazioni (di origine Balcanica) sulle spiagge adriatiche.
Contemporaneamente i SICULI dalla Puglia si estendono fino alla Sicilia.
Periodo di Transizione all’età del FERRO (Tra il 1.200 e il 1.000 a.C.)
La migrazione in atto dai Balcani, anche se ostacolata dai Castellieri Istriani, si stanzia nei colli Euganei, nel Ticino, nella valle Tiberina.
Prima età del FERRO ( Tra il 1.000 e il 500 a.C.)
Gli ILLIRICO-VENETI, superati i Castellieri Istriani, spingono i VENETO-UMBRI e SABINI a spostarsi verso sud lungo la penisola. Fortificazioni di questo periodo si trovano in Liguria e Provenza.
Mentre gli ARCADI giungono nel Lazio, i GRECI colonizzano l’Italia meridionale e gli ETRUSCHI (già approdati nel IX secolo sulle coste toscane) si estendono verso l’interno oltre gli Appennini.
All’inizio della Seconda Età del FERRO i GALLI, provenendo dal nord e superate le Alpi penetreranno nella pianura Padana, costringendo i LIGURI a concentrarsi nel territorio dell’attuale Liguria.
Dalla suddivisione qui a fianco illustrata risulta che le migrazioni della genia degli INDOEUROPEI non si stanziò uniformemente su tutto il territorio italiano, ma in alcune regioni rimasero dominanti alcune popolazioni più antiche e precedenti.
I LIGURI sono una di queste popolazioni, che resterà geneticamente indipendente sino alla dominazione romana, con una propria genia, parallela ai Fenici, ai Greci, ai Celti e agli Etruschi.
Facendo un confronto tra il patrimonio genetico degli attuali abitanti dell’Italia con quelli riscontrati nei reperti dell’Italia preromana e del bacino del mediterraneo si è riscontrata una forte coincidenza, ed una sostanziale suddivisione, in tre specifiche zone genetiche che dimostrano come sia avvenuta la sovrapposizione delle genie:
SUD (Puglia, Calabria, Sicilia) = GRECI
CENTRO (Toscana, Lazio, Emilia, Umbria) = ETRUSCHI
NORD (Liguria, Piemonte, Lombardia) = LIGURI
Le situazioni ed i fatti qui sopra citati ci indicano che sul territorio della penisola italiana vi sono state molte stratificazioni di popolazioni sia “indigene”(esclusivamente locali cioè nate e formate sul posto) che esterne di popoli in migrazione, alla ricerca di ambienti in cui stabilirsi stabilmente, uscenti da luoghi dove non era più possibile sopravvivere per carestie, mutazioni climatiche o per invasioni di altre popolazioni in espansione.
Un quadro riassuntivo lo si può avere anche osservando, attraverso la successione temporale (dal Neolitico all’Età del Ferro), le varie “CULTURE” che si sono stanziate, e di cui sono state trovate tracce certe, nelle varie regioni italiane.
Concludendo, la popolazione dei “LIGURI”, anche se attraverso le varie epoche preistoriche e storiche ha dovuto più volte ridimensionare il proprio stanziamento sul territorio a causa della spinta di altre popolazioni confinanti in cerca di nuovi spazi (quando non ha potuto contrastarne la pressione), ed alla fine concentratasi nell’attuale ambiente Nord-Appenninico (definita appunto regione Liguria), è da considerare una delle prime genie stanziate stabilmente sul territorio del Nord Italia ed è definibile come decisamente “indigena”, cioè originaria del luogo.
Altra valutazione è quella che riguarda le origini della città di GENOVA, capoluogo dei LIGURI. Infatti si deve supporre che la città si sia formata spontaneamente come porto di scambio verso l’interno e punto di approdo protetto dalla orografia naturale circostante, e che già dagli inizi siano in essa convissuti i navigatori-commercianti delle maggiori civiltà dell’epoca, formando una prima struttura sociale multietnica.
[ulteriori immagini saranno inserite appena verranno pronte]
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I PRIMI ABITANTI DEI CASTELLARI
E DI GENOVA
Estratto da Angiolo Del Lucchese, I primi abitanti di Genova, in Genova dalle origini all’anno mille, a cura di Melli P., SAGEP, 2014.
VIII – VII millennio a.C.
SITO MESOLITICO A FERRADA DI MOCONESI
…
Nel corso dello scavo del Castellaro di Uscio venne individuato un sito mesolitico a Ferrada di Moconesi, a pochi metri dalla sponda sinistra del torrente Lavagna, alla periferia dell’attuale abitato. Qui nel 1982, durante lo scavo di un nuovo condotto fognario, l’ispettore onorario Augusto Nebiacolombo identificò e raccolse alcuni manufatti in diaspro rosso, che indussero la Soprintendenza a fare eseguire l’anno seguente una breve campagna di scavo. Sotto lo strato superficiale di humus, fu individuato un livello giallo argilloso di una ventina di centimetri da cui provenivano i manufatti, comprendenti punte a dorso e armature microlitiche (triangoli), che permisero un’attribuzione del sito al Mesolitico Antico (VIII – VII millennio a.C.). Si tratta di uno dei pochissimi siti di fondovalle attualmente noti, per il quale è possibile ipotizzare una funzione residenziale. Il diaspro utilizzato non era locale e poteva provenire dalla Val Graveglia o da Rovegno in Alta Val Trebbia, ma la scheggiatura avveniva nel sito, come attestato dalla presenza di nuclei, ricavati da ciottoli poco fluitati o liste di questo materiale.
Negli stessi anni nuovi dati divennero ben presto disponibili anche relativamente alle più immediate vicinanze della città di Genova. Infatti nella primavera del 1982 la segnalazione del rinvenimento di un frammento di ascia levigata in pietra verde presso passo Giuche (tra Monte Bastia e Monte Fascie, m 747) attirò l’attenzione dapprima sull’area immediatamente circostante, dove vennero rinvenuti in superficie manufatti scheggiati in diaspro rosso e selce riferibili su basi tipologiche al tardo Mesolitico, poi su tutto il crinale parallelo alla costa che va dal passo Giuche al passo Monte Becco e al passo Monte Traso, che mette in comunicazione il bacino idrografico del Bisagno con quello del torrente Lavagna. In diverse località, nei territori dei comuni di Bogliasco, Sori e Bargagli furono così rinvenuti in superficie manufatti litici appartenenti a periodi diversi, che spaziano dal Paleolitico Medio, l’epoca in cui vissero i Neandertaliani, al Bronzo Antico. (fig. 2, pg. 58, Manufatti litici mesolitici)
Le caratteristiche dei ritrovamenti, concentrati in prossimità di passi o selle intervallive, in vicinanza di piccole sorgenti d’acqua, unitamente alla tipologia dei reperti (armature microlitiche, punte di freccia), fecero interpretare tali siti come stazioni di caccia in zone che potevano favorire la sosta di animali in transito stagionale. Successivamente, nel 1988, la zona fu interessata dagli scavi per la messa in opera del Metanodotto SNAM (tratta Genova – derivazione per Recco), che resero possibile un’indagine più approfondita sull’area, mettendo in luce altri materiali preistorici in quattro località. Nei siti già noti di passo Giuche e Nasoni vennero alla luce, in superficie o appena al disotto della cotica erbosa, manufatti litici castenoviani (Mesolitico Recente) con qualche frammento di punte di freccia attribuibile all’età del Rame o al Bronzo Antico. In località Case Cordona, anche in assenza di manufatti, fu possibile evidenziare l’esistenza di uno strato attestante il disboscamento per attività agricola dell’area, con accumulo di materiale organico legato a concimazione o alla stabulazione di animali, datato al radiocarbonio al Bronzo Finale, che mostrava interessanti punti di contatto con la situazione evidenziata nel coevo castellaro di Uscio.
Infine in località Costa Bottuin, su un crinale di Monte Bastia che fa da spartiacque tra le valli del Bisagno e del Polcevera, fu raccolto, nell’ambito di un insediamento di età romana (I – VI secolo d.C.), un pugnaletto attribuibile su basi tipologiche al Bronzo Recente. Questi ritrovamenti chiarirono come i siti di Camogli e Uscio dovessero trovare corrispondenza in altri analoghi anche nell’area genovese, che dovevano formare complessivamente una rete di abitati, aree di lavoro artigianale e frequentazioni agropastorali di una popolazione legata da vincoli sociopolitici che trascendevano il singolo abitato. A conferma di questo assunto altri ritrovamenti segnalarono la presenza di materiali del Bronzo Medio anche nell’entroterra verso ponente (Renesso di Savignone) e nello stesso ambito cittadino (Borgo San Tommaso). A Renesso, verso la metà degli anni ottanta, un taglio per la rettifica di un sentiero nel bosco evidenziò la presenza di una sacca di terreno contenente ceramica del Bronzo Medio, decorata a scanalature e coppelle a centro rilevato, tipica della facies di Viverone dell’Italia nordoccidentale, considerata come formativa del mondo ligure della successiva età del Ferro, la cui presenza venne così ad essere attestata anche nel territorio genovese. Recentemente uno studio di micromorfologia del suolo ha evidenziato nei campioni raccolti a Renesso alterazioni dovute a fuochi ad alta temperatura, che fanno ipotizzare la presenza di forni per la cottura della ceramica o, più probabilmente, data la presenza di una possibile tuyère (becco di un mantice), per attività metallurgica, del resto ben attestata in coevi siti della Val Bormida, che divenne un’importante zona mineraria e metallurgica per la protostoria regionale proprio a partire da tale periodo.
A Borgo San Tommaso, nel 1995, i lavori di costruzione della stazione della Metropolitana di Principe portarono in luce alcuni strati in giacitura secondaria che hanno restituito reperti ceramici preistorici (Bronzo Medio) e protostorici (età del Ferro), provenienti dal dilavamento di stratigrafie situate a quote superiori, ipotizzabili nell’area della Costa di Cornigianello a nord della stazione Principe. Da segnalare per quanto riguarda il Bronzo Medio la presenza di caratteristici frammenti con bande di solcature rettilinee e curvilinee, o con bugnetta circondata da solcature, mentre tra i materiali dell’età del Ferro è interessante il ritrovamento di un coperchio con ansa a bastoncello all’apice, che indizia rapporti col mondo villanoviano.
Anche sul Neolitico nuovi dati furono acquisiti negli stessi anni grazie a più attente osservazioni sul territorio e a lavori di “archeologia preventiva”. Sopra Begato, sulla cresta tra Forte Sperone e Forte Diamante, a circa 460 metri di quota, fu rinvenuta fortuitamente una punta di freccia foliata a ritocco piatti in selce grigia, di una tipologia attribuibile al Neolitico Medio (cultura del Vaso a Bocca Quadrata), su una possibile via di crinale sullo spartiacque che separa la Val Polcevera dalla Val Bisagno, confermando una frequentazione delle alture a scopi venatori anche per questo periodo.
Un importante indizio della presenza di un coevo abitato venne invece raccolto durante i lavori di costruzione del parcheggio interrato di piazza della Vittoria tra il 1993 e il 1994, quando carotaggi in profondità portarono in luce, all’interno di livelli antropizzati con frammenti ceramici e carboni, un frammento di legno di quercia carbonizzato interpretabile come trave, datato al radiocarbonio 5770±70 AF (anni fa), quindi nell’ambito del Neolitico Medio. Tale rinvenimento ha fatto ipotizzare la presenza di un insediamento palafitticolo alla foce del Bisagno, alla profondità di circa 12,5 metri sotto la superficie della piazza, circa 5 metri sotto il livello marino attuale. Questa quota dovrebbe infatti corrispondere all’incirca al livello del mare dell’epoca, in corso di risalita nell’Olocene antico e medio dopo la fine del periodo glaciale, prospettando per l’area una situazione lagunare e palustre molto favorevole all’insediamento umano secondo le esigenze del periodo, data la presenza di notevoli risorse ambientali. Infine, in epoca non ben precisata, venne raccolta a Nervi un’altra accetta levigata in pietra verde attribuibile allo stesso periodo (fig.3) recuperata nel 2007 ma rimasta fino ad oggi inedita, che costituisce un ulteriore indizio di una presenza diffusa su tutto il territorio genovese.
Questi dati, pur limitati e frammentari, fornivano la possibilità di tentare una prima sintesi sulla frequentazione di Genova e delle aree limitrofe nel corso della preistoria. Gruppi di cacciatori, dal Paleolitico Medio al Neolitico, come pure successivamente nell’età del Rame e nel Bronzo Antico, avevano frequentato sulle alture retrostanti alla città zone propizie per l’abbattimento di prede, lasciando sul terreno resti dei loro utensili, che spesso fabbricavano sul posto prevalentemente con diaspro rosso proveniente dall’Appennino ligure-emiliano. Da sottolineare come siano particolarmente concentrate in alcune zone dell’Appennino genovese e tosco-emiliano le tracce dei bivacchi di cacciatori mesolitici, che si spostano verso quote mediamente più alte nella fase più recente del Mesolitico (Castelnoviano) rispetto alla più antica (Sauveterriano).
Nel corso del Neolitico la foce del Bisagno era stata insediata, forse con un villaggio palafitticolo, e sul territorio erano state smarrite accette in pietra verde, utilizzate con ogni evidenza per il diradamento della vegetazione. Nell’età del Bronzo erano stati costruiti i primi insediamenti d’altura con basi di capanne e terrazzamenti in pietre a secco, indice di una più accentuata trasformazione ed antropizzazione del territorio, la cui presenza era indiziata anche in ambito urbano da ritrovamenti in giacitura secondaria.
Tutte queste testimonianze non riguardavano probabilmente le sedi principali di queste popolazioni, da ubicare deduttivamente a mezzacosta e nei fondovalle, che rimanevano sconosciute per motivi che oramai apparivano evidenti. La risalita del livello del mare nel corso della prima parte dell’Olocene aveva cancellato i siti costieri; la vasta azione di erosione ed accumulo prodotta dai brevi ma impetuosi corsi d’acqua a regime torrentizio ne aveva irrimediabilmente alterato od obliterato molti altri, seppellendoli nei casi più favorevoli sotto metri di colluvio; la presenza di una città con oltre due millenni di vita aveva prodotto intense trasformazioni del territorio, che avevano comportato anche la sistemazione con terrazzamenti delle aree limitrofe adatte all’attività agricola, distruggendo in molti casi le tracce di precedenti frequentazioni.
In questa situazione solo un caso fortunato connesso a scavi in profondità o in zone rimaste quasi miracolosamente inalterate poteva gettare nuova luce.
4.790 e 4.540 anni a.C.
RITROVAMENTI IN PIAZZA BRIGNOLE
E PIAZZA DELLE VITTORIA
L’occasione per indagare in profondità un’area vicina al letto del Bisagno, non distante dalla foce, venne offerta tra il 2007 e il 2008 dai lavori della Metropolitana, che anche in altre zone lungo il percorso avevano già portato alla luce resti di edifici e altre testimonianze del passato della città. In piazza Brignole, lungo il lato ovest dei binari della omonima stazione, era infatti previsto lo scavo di un pozzo di ventilazione; trattandosi di area valutata a “rischio archeologico”, in particolare per la presenza del monastero delle Brignoline, demolito nel 1868 quando venne costruita la stazione ferroviaria, la Soprintendenza prescrisse che i lavori venissero seguiti da una ditta di archeologi professionisti. La presenza nell’area di un potente interro sopra i livelli rocciosi di base rese necessaria l’approfondita indagine archeologica di un’ampia superficie (312 mq) sino alla profondità di oltre 12 metri. Lo scavo ha restituito una complessa sequenza stratigrafica che va dall’epoca attuale al Neolitico Medio.
Le più antiche testimonianze della presenza dell’uomo nell’area di piazza Brignole sono state messe in luce a circa m 3,65 sul livello del mare, quasi 10 metri al disotto del piano stradale.
Si tratta di numerosi carboni di pruni, querce ed erica, datati al radiocarbonio tra 4790 e 4540 anni a.C. (Neolitico Medio), e legni non carbonizzati di frassino, ontano e nocciolo. Le analisi su alcuni rametti di frassino hanno manifestato in sezione trasversale una evidente anomalia nella distribuzione dei vasi del legno nell’ambito delle cerchie annuali, riconducibile, secondo Daniele Arobba e Rosanna Caramiello che hanno esaminato i reperti, alla pratica della scalvatura: non si nota infatti la produzione di fori con diametro progressivamente decrescente verso la zona tardoestiva e autunnale dell’anello di crescita annuale.
Alcuni resti vegetali provenienti da piazza Brignole, sottoposti ad analisi paleobotaniche, hanno mostrato tracce di tagli artificiali che documentano per la prima volta in Liguria la pratica della scalvatura. (Disegno di Silvia Landi, modificato)
Tale pratica consiste nel taglio di rami durante la tarda primavera-estate per ottenere un’ulteriore quota di foraggio nei periodi di carenza e determina nella pianta una riduzione del legno primaticcio a pori di grande diametro. La scalvatura è stata operata fino a tempi recenti sull’Appennino ligure e tosco-emiliano per l’approvvigionamento di foraggio estivo per ovicaprini e bovini. Le citate osservazioni hanno fornito, per la Liguria, la prima prova diretta di questa attività nel Neolitico, già ipotizzata sulla base di esami morfologici su materiali provenienti dalla caverna delle Arene Candide nel Finalese; testimonianze di questo tipo sono poco comuni e provengono solo da alcuni siti archeologici dell’area ligure-provenzale e alpina occidentale.
Benché lo strato di questo periodo non abbia fornito altre tracce della presenza umana, si deve ritenere che questa attività venisse praticata per l’allevamento di animali domestici da parte degli abitanti di un vicino abitato, la cui ubicazione precisa non è nota, ma che può essere ipotizzata con verosimiglianza nell’area di piazza della Vittoria, dove, come già ricordato, negli anni Novanta a seguito di carotaggi erano venute alla luce evidenze di frequentazione antropica in zona umida, datate al radiocarbonio ad un’epoca praticamente coincidente, quando la Liguria era abitata dalla popolazione della cultura del Vaso a Bocca Quadrata. Queste genti, che coltivavano cereali (farro, frumento, orzo) e legumi come i primi agricoltori del Neolitico Antico, avevano però portato a pieno sviluppo l’allevamento stanziale introducendo le capre e incrementando la presenza dei bovini, da cui potevano derivare le maggiori esigenze di foraggio da reperirsi appunto mediante la scalvatura. Il successo dell’allevamento fu tale da permettere un sensibile incremento della popolazione e un’occupazione più capillare del territorio, come attestato ad esempio nelle caverne del Finalese. È in questo periodo che si hanno i primi indizi di consumo di latte e derivati, con gli animali non più allevati solo come fornitori di carne per l’alimentazione e di materiali diversi da utilizzare (pelli, ossa ecc.), e i primi riscontri di malattie connesse a queste nuove abitudini alimentari, come la tubercolosi spinale. Si può dunque concludere, senza fare correre troppo l’immaginazione, che verso la metà del V millennio a.C. esistesse, in un’area paludosa presso quella che era allora la foce del Bisagno, sotto il livello attuale del mare, un abitato di case di legno e altri materiali deperibili, i cui abitanti si dedicavano, oltre che all’agricoltura, anche e soprattutto all’allevamento stanziale di ovicaprini e bovini, andando a cercare foraggio sulle vicine alture ai margini del torrente e spingendosi a occasionalmente a caccia verso quote più elevate. Le ofioliti del massiccio del Beigua costituivano già da tempo la principale fonte di approvvigionamento di materia prima, ricercata anche al di fuori dell’ambito regionale, per la litica levigata, mentre erano ben note diverse aree da cui procurarsi selce o diaspro per la scheggiatura, sia da ambito ligure sia, attraverso scambi, da zone che fornivano la materia prima di migliore qualità, come i monti Lessini.
A una quota superiore, tra m 7,16 e 6,52 sul livello del mare attuale venne individuato [nel sito di piazza Brignole] uno strato contenente numerosi frammenti ceramici, macine, lamelle di selce, un’accetta (fig. 6 e 7 pg 61) in pietra verde, carboni di legno e resti scheletrici di animali molto frammentari, nell’ambito del quale si sono potute evidenziare due fasi di frequentazione, con resti di focolari e accumuli di rifiuti (fig. 4). Non essendo emerse tracce di strutture, ad eccezione di una fossa di forma a “T” (fig. 5), interpretabile come silos per la conservazione di derrate, in relazione alla presenza di residui di ghiande torrefatte, si può pensare, più che a un’area di abitato, a frequentazioni stagionali, verosimilmente legate ad attività agricole o più genericamente produttive, forse esercitate in un’area marginale di un villaggio.
Ceramica del neolitico superiore. Fase antica in basso, fase recente in alto.
Focolare e fossa silos al sito di piazza Brignole.
Le datazioni radiocarhoniche fanno risalire con notevole grado di probabilità la fase più antica intorno al 3900-3700 a.C. e quella più recente intorno al 3700-3500 a.C.
La ceramica recuperata (fig. 6), in particolare ciotole carenate e piatti a tesa, mostra stringenti confronti con elementi della cultura di Chassey/Lagozza, già ben attestata in Liguria nelle caverne del Finalese, di Toirano e della Val Pennavaira, e più in generale con i complessi tardo neolitici dell’Italia centro-settentrionale. Anche i restanti elementi sono compatibili con tali contesti; mancano le caratteristiche anse “a flauto di Pan” ben note alle Arene Candide, probabilmente perché il nostro sito si colloca in un’epoca leggermente più recente rispetto alla loro diffusione. Benché molto frammentari, i materiali degli strati superiori sembrano evidenziare invece qualche aspetto più tardivo. La forma della fase recente (a sinistra) ricorda elementi tardo-chasseani e di Neolitico finale; la scodella con superficie resa scabra con riporti d’argilla trova confronto in ambito tardo neolitico della Toscana a Poggio di Mezzo, mentre il vaso cilindrico con cordone liscio sotto l’orlo e fondo sagomato trova puntuali riscontri in contesti di avanzato IV millennio in Lombardia e in Svizzera; tali elementi preludono già agli stili ceramici della successiva età del Rame.
La cultura di Chassey/Lagozza rappresenta per questo periodo l’aspetto più diffuso e rappresentativo nell’Italia settentrionale e risulta fortemente improntata da influssi occidentali, provenienti dalla Francia meridionale. È caratterizzata da ceramica nero-lucida, raramente decorata a graffito con motivi geometrici, le cui forme più caratteristiche, come in parte già sopra ricordato, sono i vasi globosi a bocca ristretta e fondo convesso, le ciotole a parete distinta o carenate con prese a bugna forate per la sospensione, i piatti a tesa, le olle con file di bugne sotto l’orlo.
Da sottolineare come nell’Italia settentrionale, durante le fasi più recenti del Neolitico (circa 3900-3500 a.C.), affermatasi oramai pienamente un’economia basata sulla coltivazione di cereali e leguminose e sull’allevamento di animali domestici, in particolare bovini e ovicaprini, cui si era oramai certamente aggiunto anche il maiale, si riscontrino notevoli mutamenti nello stile di vita delle popolazioni, che già vivevano in villaggi abitati da gruppi umani piuttosto numerosi. In questo periodo è documentata inoltre per la prima volta in maniera palese l’attività della tessitura (frisatole, pesi reniformi da telaio), anche in relazione al diffondesi della coltivazione del lino, mentre l’uso della lana non è attestato con certezza prima dell’età del Bronzo. Caratteristico di questa cultura anche l’uso di selce bionda proveniente dalla Francia meridionale (Bedoulien), indizio di contatti prevalenti con l’area transalpina occidentale, che è stata rinvenuta anche nel sito di piazza Brignole.
Sull’Appennino si registrano interventi antropici sulla vegetazione, per mezzo del fuoco, interpretati come finalizzati a creare nuove aree di pascolo. Vengono infatti per la prima volta frequentati in maniera significativa nuovi ambienti come le alte quote montane, in relazione alla ricerca di pascoli estivi per il bestiame, come attestato da grotte utilizzate come stalla in altura, e sembra accentuarsi anche l’interesse per le aree umide, che offrivano notevoli possibilità di sostentamento in conseguenza alla ricchezza delle risorse ambientali.
Nel sito di piazza Brignole gli animali domestici meglio attestati sono i bovini (tre individui), che risultano macellati in giovane età per il consumo della carne. Gli ovicaprini sono rappresentati da due individui, tra cui sicuramente una capra, anche in questo caso indiv idui giovani. I suini sono ugualmente rappresentati da due individui, di cui uno sicuramente giovane, ma non è da escludere, data la frammentarietà dei resti, che possano appartenere anche a cinghiale. È attestata anche la presenza del cane, il cui addomesticamento a scopi di caccia risale peraltro almeno al Mesolitico.
Dai dati delle analisi polliniche eseguite da Daniele Arobba e Rosanna Caramiello sui sedimenti di piazza Brignole si riscontra la sostanziale tenuta della copertura boschiva, indice di una pressione antropica non particolarmente elevata, anche se sensibile per l’attestazione di specie la cui espansione è legata proprio alla presenza dell’uomo (poligoni, chenopodiacee, piantaggini, ortica), e la diminuzione delle piante acquatiche, legata alla riduzione delle aree acquitrinose, probabilmente in parte sostituite da prati e colture di cereali come orzo e frumento, di cui è chiaramente attestata la presenza nel diagramma pollinico stesso.
Il sito individuato rappresenta un interessante documento della frequentazione di aree umide in Liguria, come doveva essere l’area adiacente all’antica foce del Bisagno nel corso del tardo Neolitico. Queste osservazioni prospettano un modello insediativo simile a quello di territori meglio conosciuti sotto questo punto di vista, come le vicine regioni padana e provenzale, e ci liberano da una sopravvalutazione del significato dei siti in grotta, finora rappresentati nella nostra in maniera quasi esclusiva.
Muro a secco del Bronzo Antico nel sito di piazza Brignole.
Alla quota di circa m 5 dal livello stradale, sotto un potente strato di frana, venne individuato un grande muro a secco, contiguo alla parete est dello scavo, che correva parallelo a una sorta di “canale” largo fra 3 e 4 metri, leggermente inclinato in direzione N/S, interpretabile come letto di scorrimento di un corso d’acqua stagionale, in parte sistemato artificialmente. Alcuni strati, accanto al muro e presso la sua base, hanno restituito frammenti di ceramica attribuibile al Bronzo Antico, come confermato dalle datazioni radiocarboniche (tra 2200 e 1900 a.C. circa) eseguite su associati resti vegetali carbonizzati. La struttura muraria ha andamento NE/SO ed è composta da pietre di diverse dimensioni, talvolta anche notevoli, prive di segni di lavorazione ma in alcuni casi intenzionalmente spaccate per una rudimentale sbozzatura. La tecnica costruttiva prevedeva la sistemazione degli elementi litici di maggiori dimensioni sui lati esterni, a formare la faccia a vista del paramento murario, in alcuni tratti molto ben conservato, che andava arretrando verso l’alto; nella parte interna alle pietre erano frammiste scaglie di pietra e argilla per rendere la struttura coesa e resistente. La parte visibile della struttura aveva una lunghezza di m 12,5, una larghezza massima di m 1,2 e un’altezza tra 1,2 e 1,8. Sul lato opposto del “canale” erano presenti livelli di frequentazione con ceramica, carboni e fauna, in parte leggermente più antichi rispetto al grande muro, in quanto riferibili sulla base delle datazioni radiocarboniche alla fine dell’età del Rame (circa 2480-2240 a.C.). Una struttura curvilinea di pietre a secco, purtroppo in cattive condizioni di conservazione in quanto quasi completamente crollata, con andamento parallelo alla roccia posta alle sue spalle, doveva completare la sistemazione dell’area nel Bronzo Antico, con una possibile doppia funzione di argine e sostegno di un terrazzamento.
La finalità complessiva delle strutture sembra dunque essere stata quella di canalizzare le acque nei periodi umidi e riparare da eventuali esondazioni un abitato, di cui l’area indagata doveva costituire l’estremità occidentale; l’ubicazione delle abitazioni si può ipotizzare nella zona tra la stazione Brignole e via De Amicis. Nella stagione asciutta, invece, lo spazio tra le due sistemazioni a e muri a secco si presentava come una sorta di “crèuza” ante litteram, che risaliva verso la zona collinare. L’impegno delle opere realizzate suggerisce che si trattasse di un villaggio di notevoli dimensioni, situato in una zona umida adiacente all’antica foce del Bisagno, che potrebbe essere stata sfruttata anche come approdo. E stata infatti ipotizzata, sulla base dello studio dei sedimenti prelevati da numerosi carotaggi eseguiti nella zona, effettuato da Marco Firpo, la possibilità, da parte di piccole imbarcazioni, di risalire dal mare il corso del Bisagno fino a un approdo situato nell’arca di piazza della Vittoria, dove sarebbe stato presente un meandro del corso d’acqua a ridosso delle rocce dei rilievi di Carignano. Ulteriori dati che fanno intravedere un’estesa e capillare occupazione dei versanti adiacenti per scopi agricoli provengono dagli scavi nel vicino monastero dei Santi Giacomo e Filippo (2010-11), dove si è registrata la presenza di fossati e cumuli di spiegamento e drenaggio, correlati a livelli argillosi e sabbiosi che hanno restituito frammenti ceramici attribuibili all’età del Bronzo.
Ceramica del Bronzo Antico in piazza Brignole.
La ceramica raccolta nel sito di piazza Brignole comprendeva prevalentemente frammenti di grossi contenitori con cordoni digitali, prese a linguetta e bugne a piastra circolare, indizio della presenza di un’area d’immagazzinamento di derrate più che di abitazione. Tra gli animali attestata la presenza di bovini (quattro esemplari) e ovicaprini (un esemplare). Interessante il ritrovamento di un palco di cervo rosso, unica testimonianza di un animale selvatico. L’esemplare fu quasi sicuramente cacciato, per la presenza di una porzione di cranio ancora connessa alla base del palco. Nella preistoria i palchi di caduta oppure quelli prelevati da animali cacciati venivano frequentemente utilizzati per la confezione di oggetti d’uso quotidiano, trattandosi di un materiale duttile ed estremamente resistente. Da ricordare come anche le già menzionate punte di freccia attribuibili a questo periodo, rinvenute sulle alture circostanti la città, testimonino di un’attività venatoria.
L’esistenza di un sito di questo tipo rappresenta una novità per la Liguria e fa ipotizzare un grado di sviluppo socio-economico delle popolazioni del Bronzo Antico non lontano da quello delle zone che hanno restituito le testimonianze più significative dell’Italia settentrionale.
L’antica età del Bronzo (circa 2200-1600 a.C.) rappresenta nell’Italia settentrionale un periodo che dà l’avvio a importanti innovazioni in diversi settori.
Nella metallurgia viene progressivamente sviluppata la capacità di ottenere leghe, che condurrà a produrre bronzi a tenore ottimale di stagno, stabilendo le premesse per la fabbricazione di una gamma di oggetti metallici sempre più varia e specializzata. Una più marcata stabilità degli insediamenti, riscontrabile nella valle Padana in relazione a un impetuoso sviluppo dell’agricoltura, darà luogo, nel corso di alcuni secoli, alla nascita di centri abitati di notevole estensione, con la realizzazione di una complessa sistemazione del territorio costituita da fossati, canalizzazioni, terrapieni e strutture di bonifica. Sono d’uso comune gli aratri di legno, si comincia a diffondere il cavallo come animale da tiro ed è attestata per la prima volta l’esistenza di veicoli su ruote. Un tale contesto permetterà l’affermarsi di sistemi socio-economici e politici più complessi, tendenti qualche secolo più tardi verso forme protourbane, profondamente diversi da quelli che regolavano le società dei periodi precedenti. Caratteristici del periodo sono i grandi abitati palafitticoli in riva ai laghi, in particolare nella zona del Garda, dove ha sede il nucleo centrale della cultura di riferimento per questo periodo: la cultura di Polada, di cui sono tipiche forme ceramiche come boccali monoansati con ansa a gomito, anfore biansate con accentuata strozzatura mediana, tazze e vasi trococonici con bugne presso l’orlo, con rare decorazioni incise a denti di lupo o a puntini, e una ricca metallurgia (asce, pugnali, spilloni, oggetti ornamentali) che mostra forti contatti con l’area centro-europea, tanto da fare ipotizzare l’arrivo nell’area benacense di nuove popolazioni dalla Svizzera e dalla Germania meridionale.
In Liguria a partire dall’età del Rame e nel corso del Bronzo Antico ebbe luogo una trasformazione dei suoli e della vegetazione montana su vasta scala ad opera del’uomo, con la riduzione dell’abetina a favore di spazi erbosi e della colonizzazione del faggio. I materiali fini mobilizzati dagli incendi per l’apertura dei pascoli finirono per creare aree acquitrinose in certe zone montane (Monte Aiona), anch’esse utili per l’abbeveraggio degli animali al pascolo, mentre in altre sono evidenti tracce di disboscamento ed esteso uso agro-pastorale di superfici anche prossime ad abitati (Val Fontanabuona).
Segnali di attività complesse come la costruzione di tombe collettive, la dislocazione sul territorio di elementi con caratteri fortemente identitari come le statue-stele della Lunigiana o le incisioni in alta quota del Monte Bego (dove sono rappresentati tra l’altro bovini aggiogati all’aratro ed armi), la presenza di miniere di rame in galleria (Monte Loreto) e una complessa attività estrattiva e distributiva del diaspro rosso della Valle Lagorara fanno intravedere anche per la Liguria un contesto economico e sociale in cui non sembra incongrua la presenza di un grande abitato in zona costiera, nonostante fino ad ora fossero rappresentati solo piccoli nuclei abitativi in arce arroccate o in grotta, tanto da far ipotizzare una società molto mobile sul territorio.
Anche le analisi dei pollini eseguite sui sedimenti di piazza Brignole sembrano confermare l’incidenza sull’ambiente delle nuove edificazioni e opere di bonifica, con la riduzione del querceto nelle aree adiacenti e in parte anche delle piante acquatiche, la diminuzione del prato-pascolo e delle colture cerealicole, mentre restano elevate le tracce di piante legate alla presenza dell’uomo.
Sembra dunque che anche l’arca urbana di Genova abbia avuto in questo periodo uno sviluppo fino ad oggi insospettato, con un abitato di notevole estensione di cui si sono conservate imponenti vestigia, tuttora sepolte sotto la zona della Stazione Brignole, che ci hanno restituito la più antica struttura muraria finora nota in città e nell’intera regione.
XV-XII secolo a.C.
IL CASTELLARO DI CAMOGLI
In ambito provinciale vennero dapprima individuati due interessanti siti d’abitato su altura, il Castellaro di Camogli, ubicato su una rocca sovrastante una falesia di 70 metri a strapiombo sul mare, e il Castellaro di Uscio, situato all’incrocio di crinali che costituivano ancora in epoca recente un’importante via di comunicazione (Monte Borgo m 720, nel Comune di Tribogna)(6), databili il primo tra Bronzo Medio e Recente (circa XV-XIII secolo a.C.) e il secondo ad una fase avanzata del Bronzo Finale (circa XI-X secolo a.C.).
I due siti furono successivamente oggetto di scavi archeologici, il Castellaro di Camogli da parte dell’ISCUM (1976-77) e quello di Uscio da parte della Soprintendenza Archeologica della Liguria (1981-85). Queste ricerche portarono in luce basi di capanne e muri di terrazzamento in pietre a secco, sia per uso domestico abitativo che agro-pastorale, retrodatando almeno all’età del Bronzo la caratteristica, tipica della nostra regione, della sistemazione a fasce dei versanti. I reperti comprendevano, oltre a vasellame ceramico, utensili ed oggetti ornamentali metallici, anche attrezzatura per la filatura e la tessitura (fusaiole, pesi da telaio), manufatti litici (macine) ed elementi ornamentali in ambra e pasta vitrea. I due siti mostravano inoltre interessanti punti di contatto con le regioni vicine, contribuendo a delineare gli aspetti tipicamente locali nel più vasto ambito culturale dell’Italia nord-occidentale, per un’epoca da considerare formativa dell’ethnos degli antichi Liguri, così come noti alle fonti storiche antiche.
A Camogli vennero documentate tre fasi di frequantazione: la più antica, testimoniata da un muro di contenimento e un focolare, attribuibile al BM2 (XV secolo a.C.); la seconda contraddistinta da una struttura abitativa a pianta ovale in pietre a secco (BM3: XIV secolo a.C.), sigillata da una frana sopra la quale venne impostata l’ultima, caratterizzata da una struttura abitativa in pietre a secco a pianta circolare (BM3/BR: XIV – XIII secolo a.C.). Dal punto di vista dei reperti la fase più antica mostra notevoli affinità con il Castellaro di Zignago (SP) e gli aspetti culturali dell’Appennino ligure-emiliano mentre quella più recente presenta interessanti punti di contatto anche con la facies finalese di Sant’Antonino di Perti, caratterizzata da influssi transalpini occidentali dal gruppo RSFO della civiltà dei Campi d’Urne.
XV-XIII secolo a.C.
IL MONTE CASTELLARO DI CAMOGLI.
RILETTURA DEI DATI ARCHEOLOGICI
Davide Delfino, Il monte castellaro di Camogli, in Archeologia in Liguria,, a cura di F. Bulgarelli, A. Del Lucchese, L. Gervasini; Nuova serie, volume II, pg 428-430, 2006-2007,
Il Monte Castellato si trova a SE dell’odierno abitato di Camogli in cima ad una rocca naturale posta a strapiombo sul versante marino, caratterizzato da una falesia di 70 metri continuamente soggerta ad erosione marina. Sul versante est, a pochi metri dalla vetta, vennero alla luce i resti di un insediamento terrazzato a seguito di ricognizioni di superficie, tra il 1967 e il 1975, e di una breve campagna di scavo, tra il 1976 e il 1977, condotta dall’ ISCUM; furono cosi recuperati circa 7.200 frammenti ceramici, 700 frammenti di concotto. 2600 reperti osteologici, oltre a frammenti di litica levigata, alcuni oggetti metallici, due vaghi d’ambra e una scoria di ferro. A seguito di uno studio preliminare e abbastanza sommario dei reperti diagnostici (Milanese, Fossati, 1982), vennero individuati tre periodi di frequentazione coincidenti con l’età del Bronzo Medio e Recente e la seconda età del Ferro, mentre più approfondito fu lo studio dei reperti faunistici e paleobotanici dei livelli dell’ età del Bronzo. Recentemente il materiale ceramico relativo ai livelli dell’ età del Bronzo e la documentazione di scavo sono stati oggetto di una revisione nell’ambito di una tesi di Specializzazione (Delfino, 2005/2006, relatore R.C. de Marinis; correlatore A. Del Lucchese), ridisegnando i frammenti editi e disegnando quelli inediti (in totale 150), approffondendo e aggiornando quindi lo studio cronotipologico, l’individuazione delle fasi di frequentazione e l’inquadramciuo della cultura materiale del sito del Monte Castellaro nell’ambito dell’età del Bronzo Medio e Recente della Liguria e dell’Italia centro settentrionale.
E’ stato possibile ricostruire la storia degli interventi che hanno preceduto lo scavo del 1982: dalle ricognizioni di T. Mannoni nel 1967 e nel 1968, alle raccolte di superficie per le quali fu autorizzato il Centro Studi di Storia Camogliese. Queste vennero interrotte a seguito di inopportuni ricuperi tramite scavo nel 1974, per poi riprendere con autorizzazione fino al 1975 quando venne individuato un affioramento di materiale in stratigrafia. L’anno successivo iniziarono i lavori di scavo curati dall’ISCUM.
Il riesame della documentazione di scavo ha permesso di riproporre, in modo più completo rispetto a quelle pubblicate, le piante degli strati VI e IV riferibili alle due strutture abitative delle età del Bronzo Medio e Bronzo Recente (fig. 1).
Da questa revisione si può chiarire perché se si osservano i frammenti ceramici, nella siglatura appaiono due numeri, uno in cifra araba e uno in cifra romana: il facto che i primi si riferiscano ad uno strato (da X a I) e i secondi ad un sottosettore (1-14) non si può capire consultando la pubblicazione del 1982, ma solo attraverso un’attenta analisi del diario di scavo, conservato nella sede dell’ISCUM. Accanto al numero di strato appaiono anche delle lettere che si riferiscono ai tagli interni agli strati. Bisogna tener presente che nella divisione stratigrafìca originaria, i cosiddetti strati più che a vere e proprie US corrispondono a fasi. Dal riesame delle planimetrie disegnate nel diario di scavo, si può ricostruire lo sviluppo dei lavori, condotti in prossimità di un lembo di paleosuolo nero, inizialmente effettuati a valle di una trincea tedesca della Seconda Guerra Mondiale e denominato settore A. A valle detto settore era delimitato da un muro a secco, oltre il quale venne allargato lo scavo e creato il settote B, a sua volta delimitato a valle da una struttura simile: qui venne rinvenuta la serie stratigrafica contenente tre fasi di frequentazione: la 1 caratterizzata da muri di contenimento e da un focolare, attribuibile grazie al materiale ceramico al Bronzo Medio 2 ( XV sec. a.C.); la fase 2, contraddistinta da una struttura abitativa a pianta ovale in pietre a secco e attribuibile al Bronzo Medio 3 (XIVsec. a. C.), sigillata da una paleofrana ritenuta evidentemente stabile (Delfino, Faccini, Firpo in c.d.s) per installarvi la successiva la fase 3, caratterizzata da una struttura abitativa in pietre a secco a pianta circolare e attribuibile al Bronzo Medio 3/ Bronzo Recente (XIV-XIII sec. a. C.). Fra il materiale ceramico, è stato riesaminato sia quello esposto tutt’ora nella sala archeologica presso la Biblioteca Civica N. Cuneo, sia quello conservato nei magazzini della Soprintendenza. la fase 1 presenta scarsa ceramica, per la quale ha poco senso fare una media degli impasti, e per la maggior parte è composta da forme d’uso domestico; indica affinità formali con l’area padana e qualche raro raffronto, più che altro nelle decorazioni, con il Bronzo Medio della Provenza. Per la fase 2. la ceramica é in gran parte ad impasto medio (44.4 %) mentre il grossolano ed il fine sono rispettivamente il 22.2% e 33,3% dei frammenti. Tra gli elementi dignostici vi sono dolii, scodelloni carenati, vasi biconici, ciotole e scodelle carenate, un orcio, brocche, un vaso a listello interno. I cordoni sono per lo più del tipo a catenella, mentre due soli sono lisci. Le decorazioni sono abbastanza disomogenee, costituite da motivi a solcatura, a incisione, con applicazioni plastiche (in un caso mista a incisione) e a impressione. Le attinenze con arce esterne alla Liguria sembrano essere quelle già viste per i pochi siti d’abitato del Bronzo Medio della regione: spiccano elementi che richiamano alcuni gruppi della facies di Grotta Nuova (Belverde e Candalla), le prime Terramare e minoritariamente la facies di Viverone, oltre a numerosi elementi più concentrati solo in Liguria. Alcuni elementi di similarità con la Provenza riguardano esclusivamente le decorazioni. Il panorama che sembra emergere, mostra in sé un intreccio di queste relazioni diverso da quello visto in siti coevi come il Bric Tana, o con fasi coeve come le Rocche di Drusco, Momperone o Zignago; se in simili contesti appaiono solo alcuni di questi influssi esterni, a Camogli essi sembrano tutti presenti nel materiale ceramico. Vi sono esemplari anche un po’ più recenti, come un’ansa a nastro di tipo Appenninico, ma è possibile che trovandosi in una situazione di forte dilavamento, possano essere stati coinvolti in uno smottamento da livelli più a monte, in quanto dalla siglatura sembra siano stati trovati al tetto dello strato.
La ceramica raffrontabile con materiale dei siti liguri presenta similarità ma quasi mai uguaglianza nell’associazione tra più decorazioni presenti su uno stesso frammento, ed anche tra foggia vascolare e decorazione. La ceramica della fase 3 è in gran parte ad impasto medio (38.2 %) e grossolano (37,1%) mentre quella fine è il 24,6% dei frammenti. Tra le forme riconoscibili vi sono dolii, scodelle emisferiche e carenate, scodelloni, ciotole emisferiche e carenate, vasi a listello, a corpo ovoide e molti biconici, brocche, orci, tazze carenate e un boccale. I cordoni sono generalmente a catenella, mentre in minor quantità si trovano cordoni lisci, lisci incisi a tacche, lisci pizzicati e cordoni rilevati. Tra le decorazioni sono presenti per lo più motivi incisi, o a tacche o lineari, e a solcatura, con motivi lineari o circolari, mentre poche sono sia le decorazioni plastiche, tra le quali spiccano i motivi a bugna, sia quelle a sgraffio rese a riempitivo, sia le decorazioni impresse; queste sono rese quasi culto con motivi a serie di impressioni allineate o a coppelle. Alcuni frammenti sono decorati a tecnica mista incisione/plastica resi spesso con tacche alternate a bugne. Per lo più questo materiale è inquadrabile nel Bronzo Recente, seppur con pochi elementi attribuibili al Bronzo Medio avanzato; il materiale è caratterizzato da raffronti tipologici che interessano in minor parte la cultura Appenninica e Sub-Appenninica, la Provenza e le Terramare di bassa pianura (grossi dolii da trasporto o elementi da presa), mentre sembrano intensificarsi quelli con l’arca occidentale dell’Italia Settentrionale e l’Emilia occidentale; in particolar modo si crea una visibile comunanza con i siti dell’Appennino piacentino e parmense e, in secondo luogo, con le facies di Alba-Scamozzina II e Alba-Solero (vasi biconici e ceramica domestica). Si nota anche l’influenza dei gruppi culturali afferenti ai Campi d’Urne Occidentali (decorazioni a solcature ad anello allungato). In generale, per quanto riguarda le affinità con i siti liguri, appare evidente un legame stretto con la parte orientale (Zignago) nella ceramica di Bronzo Medio, mentre in quella con caratteri peculiari del Bronzo Recente sembra esserci una forte affinità anche con i siti della Liguria di Ponente, soprattutto nelle decorazioni a diffusione sovraregionale. Il lavoro, del quale si è presentata una breve sintesi, vuole essere anche uno stimolo a rivalutare la sala archeologica che ospita alcuni tra i frammenti studiati, con opportuni interventi conservativi e di valorizzazione.
Bibliografia
Delfino D. 2005/2006, II castellaro di Camogli (Ge): una revisione del materiale ceramico edito e inedito e dei dati di scavo degli strati dell’età del Bronzo, Tesi di Specializzazione, Scuola di Specializzazione in Archeologia, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università Statale di Milano.
Delfino D., Faccini F., Firpo M., c.d.s., Un evento franoso dell’età del Bronzo nel sito costiero instabile del castellaro di Camogli, in Atti del II Simposio Internazionale “Il monitoraggio costiero mediterraneo: problematiche e tecniche di misura”, (Napoli 2008).
Fossati S., Milanese M., 1982, Gli scavi del castellare di Camogli, Recco.
Circa IX – X secolo a.C.
IL CASTELLARO DI USCIO
Ad Uscio l’occupazione è invece ascrivibile a fasi avanzate del Bronzo Finale e interessò tutta l’area sommitale, sistemata a terrazzamenti sostenuti da bassi muri a secco (fig. 1, ima scavo). Tre di queste strutture sono state indagate dallo scavo: le due inferiori mostrano indizi di frequentazione domestica, mentre per quella superiore, prossima al crinale, sono state ipotizzate funzioni agricole. Anche le due inferiori manifestano evidenze di usi differenziati: il terrazzamento inferiore e più grande ha restituito, molti resti di macine, reperti riferibili a tessitura e filatura e vasi di grosse dimensioni (dolia) generalmente riferiti alla conservazione di derrate, mentre quello superiore ha restituito maggiore quantità di ceramica fine e d’uso domestico; si potrebbero quindi distinguere nell’ambito dell’abitazione un’area di lavoro da una più strettamente residenziale. I resti carpologici sono rappresentati in prevalenza da orzo, grano e fave, accompagnati da ghiande, probabilmente anch’esse destinate all’alimentazione umana. La presenza di metallo, ambra e pasta vitrea denotano una economia che ha superato il livello di sussistenza, mentre la tipologia dei bronzi sembra indiziare una metallurgia locale. Il sito di Uscio faceva probabilmente parte di un comprensorio sociopolitico comprendente anche il Tigullio, come suggerito dall’uso del gabbro come degrassante della ceramica, materiale proveniente dal settore orientale dell’area, sede anche delle risorse di minerale cuprifero.
Ad Uscio furono rinvenute anche vestigia di frequentazioni precedenti: tracce di disboscamento e attività di caccia, attestate soprattutto da scarsa industria litica riferibile ad un periodo tra Mesolitico Recente e Neolitio Antico, e i resti di un insediamento, di lunga durata, riferibile all’avanzata età del Rame e al Bronzo Antico, con datazioni radiometriche tra 2500-1700 BC. In questo periodo venne insediata un’ampia area nella quale sono documentate attività di lavorazione di materiali come legno, osso e corno (tracce di usura sugli strumenti litici), preparazione di cibo e disboscamento, nell’ambito di un insediamento abitativo permanente o semipermancnte al centro di percorsi di crinale che potevano favorire lo spostamento di bestiame per attività di carattere pastorale, in una zona ben provvista di sorgenti. I dati botanici fanno ritenere probabile una frequentazione tra primavera e autunno per la coltivazione di legumi e cereali, incerto se praticata nelle immediate vicinanze. L’intervento umano nell’area si registra come consistente e ha lasciato tracce con abbondanti manufatti litici, ceramica, reperti metallici e numerosi semi e resti carboniosi. La lunga frequentazione ebbe effetti anche sull’equilibrio ambientale dell’area, causando episodi di dilavamento, che ebbero forse anche qualche influenza sull’abbandono del sito in un momento avanzato del Bronzo Antico. Anche in questo caso la presenza di gabbro come degrassante nella ceramica fa ritenere che il sito gravitasse prevalentemente verso l’area del Tigullio, caratterizzata da buona presenza di risorse cuprifere e, in zone più interne, del diaspro rosso utilizzato fino a questo periodo per la fabbricazione di punte di freccia.
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I POPOLI LIGURI
Estratto da Guido Zunino, www.vegiazena.it
La denominazione di ITALIA ha origini molto antiche ed incerte. Alcuni studiosi la fanno derivare dall’accadico “ATALU”(Paese dei tramonti), o dall’etrusco “HINTHIAL”(Paese delle ombre), o dal latino VITULI (Paese dei vitelli), ed in alcuni antichi testi Greci la nostra penisola risultava chiamata “ESPERIA” che in lingua greca vuol dire “terra a occidente”(rispetto alla Grecia), in direzione della stella ESPERO. Comunque già in epoca greca tutte le popolazioni italiche vennero identificate dai greci con il nome di “ITALI” (nome di un popolo di primitivi pastori allora stanziato nella Calabria occidentale) perché confinanti con le loro prime colonie sul territorio nel sud dell’Italia.
Attraverso le documentazioni scritte, e quindi certe, è molto difficile risalire con esattezza a periodi storici riportati o trattati che riguardino la penisola italiana e in particolare la LIGURIA che siano precedenti al 3000 /2000 a.C. (periodo ENEOLITICO e poi età dei METALLI ), epoca che in Mitologia è chiamata anche dei cosiddetti DILUVI .
Secondo diversi Autori di Storia Mitologica la penisola italica ricominciò a popolarsi dopo il Diluvio Noelico intorno al 2000 a.C. da popolazioni Razene giunte via mare e comandate dal mitico GIANO, che dicono abbia dimorato presso Roma su un colle (GIANICOLO) e/o presso Genova sul colle ARX JANO (Sarzano), probabilmente convivendo con le popolazioni Aborigene sopravissute al disastro.
La popolazione dei LIGURI (o LIBUI), secondo molti storici, è da considerarsi la più antica popolazione italica conosciuta, precedente anche agli stanziamenti dovuti a migrazioni indoeuropee o a colonizzazioni successive di popoli mediterranei.
Alcuni importanti studiosi pensano che originariamente i LIGURI fossero presenti già da epoche molto antiche nei territori che confinano con la penisola Iberica ad ovest (certi i contatti con i BASCHI nell’attuale zona dei Pirenei, e naturalmente anche con gli IBERI ), a nord con la Gallia dei CELTI, a nord-est con i RETI, a sud-est con UMBRI e TIRRENI. Stanziati perciò sulle attuali: valle del Rodano, Costa Azzurra, Provenza, Liguria, Piemonte, Lombardia, alta Toscana, Emilia, basso Veneto, giungendo sino alla Corsica, isola d’Elba e nord Sardegna comprese.
Dopo una prima contrazione delle popolazioni stanziali Liguri attribuita alla spinta migratoria di popolazionii provenienti dall’ARMENIA, CAUCASO-MAR NERO (età Mesolitica 5.000 – 4.000 a.C.) attraverso il NORD-AFRICA e la penisola IBERICA, i LIGURI si ridussero nella zona compresa tra il delta del fiume Rodano, il Piemonte, la Liguria, il nord della Toscana e dell’ Emilia, fino a tutta la pianura Padana.
Per la genesi del nome”LIGURI” molti studiosi lo assimilano ad una parola coniata dai Greci che potrebbe avere tre interpretazioni: “Abitanti di un terreno paludoso” o ” LIGA”, “Popolo che parla ad alta voce”, “Quelli dalla voce stridente”; interpretazioni libere, ma che dimostrano l’antichissima presenza sul territorio di questa popolazione.
In questo periodo (età del Bronzo Recente ed età del Ferro 1600-500 a.C.), probabilmente a seguito dei contatti con le altre popolazioni confinanti (ETRUSCHI, CELTI, VENETI, RETI, EUGANEI e LEPONZI) inizia l’uso, anche da parte dei LIGURI, della cremazione come metodo di sepoltura (campi d’urne) prima in parziale e poi in completa sostituzione della sepoltura in fosse (nella nuda terra o foderate di ciottoli o con bare di legno), in grotte o anfratti nascosti vicino o lontano dai luoghi di dimora abituali.
Sotto una seconda spinta migratoria di popolazioni Gallico-Celtiche dal NORD-EUROPA (età del Ferro 1.000 – 500 a.C.) i popoli Liguri si stanzieranno definitivamente a ridosso delle Alpi Marittime e dell’Appennino Ligure, concentrandosi nell’attuale LIGURIA, popolando stabilmente sia la parte appenninica che la costa e proteggendo il loro territorio con la costruzione strategica dei CASTELLARI sulle alture dominanti le valli abitate .
Nei riferimenti mitologici o leggendari i LIGURI sono citati in più opere da vari autori antichi: ESIODO, ECATEO da Mileto, ESCHILO (nel “Prometeo”), EURIPIDE (nelle “Troadi”), ERODOTO, TUCIDIDE, POLIBIO, DIODORO di CARIA, MARCO PORCIO CATONE, POSIDONIO, DIODORO SICULO, SALLUSTIO CRISPO, DIONIGI D’Alicarnasso, STRABONE, TITO LIVIO, TACITO PUBLIO CORNELIO, PLUTARCO, TOLOMEO, CICERONE, SILIO Italico.
Secondo gli studiosi: V. POGGI (“I Liguri nella preistoria”Savona, Tip. Bertolotto e C. – 1901) e E. ALDEROTTI (“I Liguri dimenticati” Ed.De Ferrari – Genova 2007) le popolazioni LIGURI stanziate nei territori a nord del Mediterraneo (spesso in lotta tra di loro o a volte alleate con altri popoli contro nemici comuni) erano suddivise in molte tribù, che spesso si autoproteggevano organizzandosi in confederazioni, sia per vantaggi economico-commerciali che strategico-militari. I gruppi più importanti erano:
In Spagna gli ELESYCES.
All’interno della Francia i SEGOBRIGI .
Nel sud della Francia gli: SALLUVI e gli OXYBI.
Dal Varo alla Turbia, i VEDIANZI, la cui capitale era Cemenello (oggi Cimiez); essendo Nizza e Monaco colonie dei Massalioti.
Sulle Alpi Italo-Francesi: i DECLATES, i NERUSI, i NEMETURI, i SUETRI.
Nord Italia:Piemonte e Lombardia fino a Lugano: LEPONTI, INSUBRI, SALASSI, AGONES, LIBUI, TAURINI, CAPILLATI, LIBICI, VENTAMOCORI, LAEVI, MARICI.
Tra Emilia e Lombardia: LANGENSES, CELEIATES.
Dalla Turbia al torrente Impero gli INTEMELI, capitale Ventimiglia.
Dall’Impero a Finale, ossia al torrente Pora, gli INGAUNI, capitale Albenga , e a tramontana di questi gli EPANTERJ (alta val Tanaro e val Bormida).
Dal Pora al torrente Lerone, tra Cogoleto e Arenzano i SABAZI, capitale Vadi Sabazi, oggi Vado. A nord gli STATIELLI con capitale Carystum, e i BAGIENNI nell’attuale Piemonte.
Dal torrente Lerone a Portofino, i GENUATI, capitale Genova, e a monte di essi nella alta val Polcevera i VETURII il cui dominio proseguiva fino a Voltri.
Da Portofino a capo Mesco, i TIGULI , con gli oppidi Tigulia e Segesta. A nord i VELEIATI .
Dal confine dei Tiguli a quello di Luni, gli APUANI, capitale Pontremoli. A nord, fino alla Garfagnana i FRINIATI e i CASUENTILLANI.
Al confine con la Toscana, vicino all’isola d’Elba (l’isola si chiamava Ilva): ILVATES.
Stanziamento di alcune popolazioni Liguri nella regione Liguria
I LIGURI descritti fisicamente di taglia robusta, asciutti, muscolosi, audaci ed indomiti oltre che mercanti e navigatori erano anche ricercati , come soldati di ventura, dai Cartaginesi nelle loro campagne militari.
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L’ORIGINE DI GENOVA
Estratto da Guido Zunino, www.vegiazena.it
E’ accertato che dalla Liguria verso la Pianura Padana esistevano già contatti commerciali tra il 4.000 e il 3.000 a.C. quando dalla costa si portava a nord l’OSSIDIANA. Mentre attorno al 3.000 erano frequenti gli scambi commerciali tra la Provenza, la Liguria, la Pianura Padana occidentale e i laghi Svizzeri di manufatti di vario genere, scambi che naturalmente continueranno poi anche in epoche successive.
Ora, parlando della nascita della città di GENOVA, tra le due principali tipologie di formazione di una qualsiasi città (“SPONTANEA” o “FONDATA”), si può affermare con certezza che GENOVA è senza dubbio una città SPONTANEA.
In base alle conoscenze attuali non è possibile stabilire con certezza una data precisa di origine della città. Le più antiche notizie certe di presenza organizzata (reperti trovati in scavi) si riferiscono ad un periodo che varia dal IX al VI secolo a.C. , ma probabilmente i primi insediamenti sono ancora precedenti (alcuni studiosi parlano del 1900 a.C. e del 1550 a.C.), anche se non sono stati ancora trovati i reperti che lo dimostrerebbero pienamente o perché coperti dalle stratificazioni dei periodi successivi o perché ancora sotto gli edifici dell’attuale città.
SITUAZIONE GEOLOGICO – OROGRAFICA
(Immagine tratta da: “Archeologia a Genova” – Sagep Ed.)
Certamente, osservando accuratamente la tipologia del territorio e la forma della costa, la vera nascita è molto più antica e da attribuire ad un naturale agglomerato spontaneo di semplici pescatori che trovavano nell’ansa del MANDRACCIO un sicuro riparo dalle mareggiate sia di “libeccio” che di “scirocco”. Pescatori che alcuni studiosi ritengono fare parte degli ABORIGENI, antica popolazione indigena della zona.
Quando a causa delle prime incursioni, pseudo piratesche o di vicini pescatori rivali, non sarà più sufficiente una semplice capanna sulla riva del mare, ma diventerà necessario proteggere la propria vita, quella dei propri famigliari e le poche povere cose indispensabili alla sopravvivenza, sorgerà nelle immediate vicinanze, sulla collina di Castello o Sarzano, alle spalle dell’insenatura adibita ad attracco, un primo “CASTELLARO” fatto con una semplice palizzata di recinzione di tronchi di legno e pali piantati nel terreno, come avvenne anche in altri numerosi agglomerati della vicina riviera (Camogli, Pignone, Zignago).
In seguito, questi semplici pescatori si dedicheranno al trasporto di poche cose verso altre spiagge, iniziando così i primi scambi-baratti di legno, formaggio, olio, carne e semplici manufatti tra gli abitanti delle colline circostanti e altri piccoli agglomerati via via sempre più lontani.
A questo punto della nostra storia nasceranno i primi scambi marittimo-commerciali, ed altre popolazioni, in espansione dal vicino medio oriente, troveranno interessante questo approdo così naturalmente protetto e già attivo commercialmente verso l’entroterra. Si affiancheranno perciò alla popolazione esistente, non sovrapponendosi e fondando una propria”colonia”, ma alleandosi e lasciando sul posto solo alcuni “incaricati” per le operazioni di scarico-carico delle loro navi e per prendere i contatti e gli accordi per gli scambi commerciali.
Esiste anche un’altra interessante teoria sulla posizione della prima città di Genova, suffragata dal pensiero e dalle deduzioni di molti studiosi(antichi e moderni), la “teoria di STALIA”, che date le sue particolari caratteristiche potrebbe anche essere decisamente anteriore a quella che è ora comunemente accettata.
Un capitolo a parte riguarda il significato del nome di GENOVA, in quanto le sue origini non sono certe e definite storicamente con iscrizioni o citazioni in opere preromane o greche antiche. Vari studiosi di storia locale ne attribuiscono la derivazione, di volta in volta, ad alcune parole in lingue antiche con diverso significato. Tra le etimologie più accreditate vi è quella del nome “ZENA” che viene citata come derivazione dalla vocazione marittimo-commerciale degli abitanti della città con genti esterne: focesi, fenicie, greche, etrusche.
Il primo sostanzioso sviluppo perciò del nucleo urbano di Genova si ebbe tra IX e VIII sec. a.C. quando gli intraprendenti commercianti FOCESI, FENICI, GRECI o ETRUSCHI, volendo espandere i loro mercati, si accorsero dell’importanza strategica dovuta alla posizione geografica nel Mediterraneo occidentale, di questo naturale approdo protetto.
Questi commercianti infatti erano alla ricerca di nuove vie per raggiungere i mercati della pianura Padana senza attraversare le Alpi. Esplorando via mare trovarono il punto più a nord del Mediterraneo Occidentale, l’attuale VOLTRI, che aveva alle spalle anche facili passi verso l’interno (passo del TURCHINO = 510 m. s.l.m.)
Mancava però di un riparo naturale a protezione dalle frequenti mareggiate del golfo ligure per le navi durante la notte o nella sosta di scarico-carico delle merci.
Venne quindi naturale preferire, a pochi chilometri di distanza, l’approdo più sicuro e già organizzato nell’insenatura formata dal Capo PROMONTORIO (Lanterna) e il Pennello naturale del MOLO (Calata del MANDRACCIO), alle cui spalle esistevano altre vie con comodi passi verso l’interno (passo di CROCETTA D’ORERO = 454 m. s.l.m.).
Questo più importante insediamento nasce quindi intorno al VI secolo a.C. dalla necessità dei commercianti sia Greco-Massalioti (con loro colonia stabile a Marsiglia) che Fenici o Italici (specialmente Etruschi) di aprire nuovi punti di scambio commerciali.
Tutti questi ” Navigatori-Commercianti “, come già detto, non fondano una propria loro nuova colonia (come avvenne per altre città), ma si accordano con la popolazione locale ivi stanziata per avere magazzini di deposito e un sicuro punto di approdo (vedi: zona dei Greci e piazza Raibetta, dall’arabo raiba = mercato ) al fine di inoltrare le merci, da loro trasportate via mare, verso la pianura Padana oltre gli Appennini e/o scambiarle con gli altri commercianti ospitati, quindi ospiti di ” una città di campo neutro, o di libero-scambio”.
La data quindi in cui vi furono i primi spontanei insediamenti naturali delle popolazioni locali nel piccolo golfo protetto è senza dubbio precedente e per ora ancora ignota.
L’agglomerato urbano crescerà di importanza e dimensioni con le aggregazioni dei “Navigatori-Commercianti”, avvenute in epoca storica, che coabiteranno con le popolazioni locali preesistenti amalgamandosi con loro e creando le principali caratteristiche che ha la città di Genova: accoglienza, convivenza, commercio.
La città di GENOVA acquista dunque importanza, come punto di scambio delle merci che dal mare erano dirette verso la valle Padana e viceversa, perché posta nell’insenatura di un naturale approdo riparato e con una particolare posizione geografica che l’avvantaggia anche per la vicinanza di una serie di passi appenninici facilmente valicabili:
passo del TURCHINO (510 m.)
passo della BOCCHETTA e di MARCAROLO (772 m.)
passo dei GIOVI ( 464 m.)
passo della CROCETTA D’ORERO ( 454 m.)
passo di CRETO ( 608 m.)
passo della SCOFFERA (667 m.)
Una INTERESSANTE IPOTESI suppone invece che il primo vero insediamento commerciale non avvenne nella cala del MANDRACCIO ma più a occidente, allo sbocco del rio Carbonara (attuale Porta SOTTANA o dei VACCA) sulla RIPA sotto il CAMPO (tra l’attuale via del Campo e via Gramsci), in corrispondenza dell’inizio di una facile via verso i monti.
Anche se questa ipotesi fosse più esatta come localizzazione, la spiegazione della nascita della città non cambierebbe, ed in epoca successiva comunque lo sviluppo della città si sposterà tra il Mandraccio e il colle di Sarzano, come riscontrato.
Infatti l’immediata vicinanza del colle di Sarzano che sovrasta l’insenatura, diventerà poi un luogo ideale per rinforzare un precedente “CASTELLARO” (VI sec.a.C.), che in epoca romana sarà poi chiamato “OPPIDUM”, in cui i mercanti e i pescatori con le loro famiglie potevano rifugiarsi in caso di attacco di pirati o nemici.
Infatti la posizione dominante dell’abitato, che permette il controllo visivo da Portofino e Capo Noli, ( probabilmente già utilizzata dagli antichi pescatori già nel VIII sec. a.C.) e le robuste mura in pietra erano la garanzia per un rifugio sicuro e necessario di un insediamento permanente.
La città ancora indipendente in epoca preromana diventerà “L’EMPORIO DEI LIGURI “, e avrà contatti commerciali con: Greci(Ateniesi e Massalioti), Cartaginesi(Fenici), Celti, Campani, Etruschi, Umbri.
In epoca romana Genova, a differenza di altre città liguri, entra presto nella sfera di Roma e ottiene la definizione di ” FOEDUM AEQUUM ” come “porta marittima” della pianura Padana e come transito di appoggio nella guerra Annibalica, anche contro i gli altri Liguri nemici dei romani. Per questo sarà anche saccheggiata e distrutta da MAGONE BARCA nel 205 a.C.
WebMaster: Guido ZUNINO
Collaboratori: Gianclaudio BAGHINO – Barbara COPPO – Mario De PAZ – Stefano FINAURI – Pino FLAMIGNI – Maria ROMANELLI – Luciano ROSSELLI – Luciano VENZANO – Enrico ZANOTTI – Sara ZUNINO
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GENOVA TOPOGRAFICA E IDROGRAFICA
Piero Barbieri, Forma Genuae, Edizione del Municipio di Genova, 1938.
GENOVA TOPOGRAFICA E IDROGRAFICA
E’ stata da alcuni avanzata l’ipotesi che il mare, in certe insenature, penetrasse con grande profondità nella terra: precisamente che occupasse a levante la piana del Bisagno tra il Carignano e lo Zerbino dove si arriverebbe ad immaginare il primo porto di Genova – e poi ancora inoltrasse nella valle del Rivo Torbido fino a Portoria – e a ponente del Molo Vecchio si addentrasse fin nei pressi di via San Lorenzo essendo munito d’ambo i lati di due moli, di uno dei quali secondo il Ganduccio un lungo tratto sarebbe venuto nei tempi addietro alla luce sulla piazza degli Squarzafichi.
La conformazione naturale del versante marittimo delle Alpi e degli Appennini che attorniano il Golfo Ligure è caratteristica per la sua strettezza, la quale fa si che questo versante sia ripido e dirupato e senza grandi anfrattuosità costiere.
Ne seguono in primo luogo grandi profondità marine: l’isobata dei 20 metri rasenta la spiaggia, quella dei 50 metri si mantiene normalmente ad una distanza non superiore ad un miglio. Ne segue quindi in secondo luogo la mancanza di interrimenti costieri, e i torrenti non valgono a costruirvi spiagge deltine. Nella riviera di levante bisogna arrivare alla Spezia, per una eccezione, in quanto quel golfo risente degli apporti del Magra. In quella di ponente la sola spiaggia in costruzione di qualche entità è tra Arenzano e Voltri; ed è in costruzione non per la quantità dei detriti convogliati dai torrenti in piena, ma per le mareggiate che respingono sul litorale i banchi, che vi si formano temporaneamente, e ve li accumulano.
Sembra quindi da escludere l’interrimento del golfo marino che avrebbe dovuto penetrare fino a Marassi; per lo meno questo ci porterebbe eccessivamente lontano nei tempi.
E’ anche da escludere che l’onda marina s’inoltrasse lungo l’alveo del Rivo Torbido, mentre a breve distanza dalla foce di questo le falde dei due colli che si fronteggiano, Sarzano e Carignano, si combaciano ad un livello notevolmente superiore a quello del mare.
Come ben nota il Podestà, il suolo stradale di contro alla Chiesa dei Padri Serviti è già a m. 15,50 sul livello del mare. Per ammettere quindi che il mare in una certa epoca s’incanalasse per la valle del Rivo Torbido bisognerebbe che in appresso si fossero verificati fenomeni di bradisismo tali da sollevare i due colli di una ventina di metri almeno sul livello del mare: ciò che i geologi negano in modo assoluto.
Altrettanto oppugnabile si presenta l’altra supposizione raccolta dal Celesia sulla traccia del Ganduccio che un braccio di mare si addentrasse fin nei pressi di via Scurreria, dando luogo a una specie di porto interno che fin dai tempi romani avrebbe avuto il nome di Mandraccio. A giustificare la sua ipotesi il Celesia si riporta agli arnesi marittimi sterrati in quelle adiacenze e alla testimonianza del Ganduccio sull’esistenza di quel lungo tratto di molo venuto alla luce ai suoi tempi sulla piazza degli Squarzafichi, già alle spalle della Chiesa delle Scuole Pie: tratto di molo che secondo il Celesia avrebbe occupato il luogo in cui poi sorse il Palazzo delle Compere e la Chiesa di San Pietro. E’ questa una confusione di luoghi tra loro nettamente distanti. Sta di fatto che il Mandraccio si affossava molto meno profondo al posto dell’attuale piazza Cavour e non davanti al Palazzo di San Giorgio – che il braccio marino dal lido com’era all’epoca romana avrebbe dovuto penetrare entro terra per altri 200 metri, il che è ancora una volta contraddetto dalla configurazione altimetrica, e infine che la quota della piazza degli Squarzafichi era ad un livello di pochi centimetri inferiore ai dieci metri sopra il mare, quota del terreno originaria perché ritagliata sulle falde della collina di Serravalle il cui culmine veniva spianato alla fine del XIII secolo per l’impianto del palazzo del Comune, ed il mare era ben più lontano.
La storia e le illustrazioni ci dicono come nei secoli andati le navi in arrivo, oltre che nell’insenatura al Mandraccio gettassero spesso l’ancora in faccia al roccioso colle di Sarzano davanti alla antichissima chiesa dei SS. Nazaro e Celso quando il mare era in piena calma e specialmente nella stagione invernale quando era difficile alle navi il girare la punta del molo sotto il soffio impetuoso dell’aquilone. E siccome i Romani dicevano porto anche una semplice rada, quale era questa, non meraviglia se si è scritto esser Genova munita di due porti, ne occorre per ciò costruire altra spiegazione.
Entro terra, a correzione del rilievo altimetrico dello stato attuale sì è naturalmente apportato le aggiunte negative e positive che gli innalzamenti e gli abbassamenti della superficie terrestre operati all’inizio dell’era storica hanno reso necessarie per ricostruire lo stato di origine, la cui fedeltà è essenziale per la ricerca dei primi tracciati stradali.
La città di Genova è fabbricata sopra dei fossi e delle ripide costiere : a poco a poco quei fossi si son coperti con manufatti ed il suolo si è conseguentemente elevato. Non bisogna però seguire le indicazioni date per questi innalzamenti dal Poggi che accenna ad accrescimenti ove di 5 ove di 10 metri, come in Soziglia, a Banchi, in Fossatello, in via Lomellini, via Giustiniani, via dei Servi, Portoria, e via S. Giuseppe.
Mentre il suolo stradale attuale in corrispondenza dello spigolo a mezzogiorno del Palazzo San Giorgio è a quota + 1,83, la via Vittorio Emanuele è a quota variante fra + 3,68 e + 4,14, piazza San Giorgio è a quota + 7,20, piazza Giustiniani a + 7,97, piazza Ferretto alla testata di via Giustiniani verso S. Donato a + 10,12. D’altra parte questa zona comprende quel quartiere romano la cui permanenza planimetrica è indubbia nello schema stradale conservato a tutt’oggi nella regione di Canneto; le sopraelevazioni del suolo non possono pertanto avere ne la estensione ne l’altezza illustrata dal Poggi.
Per contro si spianarono le cime, si abbassarono i valichi. La piazza di Sarzano fu spianata sul colle omonimo; la punta del colle che da Sarzano scendeva in mare dev’essere stata ritagliata in prossimità della radice del Molo Vecchio per facilitare l’accesso all’interno dalla Ligia di Sarzano verso il Mandraccio; la salita di San Matteo ebbe abbassato il valico verso la via Felice, mentre a fianco si spianava Serravalle per accogliere il Palazzo del Comune; il vico del Vento venne abbassato per raccordarsi alla Porta dell’Arco durante la costruzione di via Giulia; e la via Nuova fu intagliata ai piedi di Castelletto; la via Roma fu scavata nelle falde del colle di Piccapietra; il colle di S. Andrea che ripiegava fino a congiungersi a Piccapietra nella piazza De Ferrari d’oggi fu spianato a più riprese prima di essere sradicato per intero; il valico dove oggi è l’arco del Ponte Monumentale, già abbassato più volte, venne rispianato 4 metri sotto; ii Teatro Carlo Felice è impostato a cinque metri più in basso della chiesa di San Domenico; la via Dante è quindici metri più in basso dell’accesso all’antico Monastero di S. Andrea.
Il colle che domina Genova è il Peralto; i suoi due poggi più a levante detti dello Zerbino e di Murteto mandano il loro tributo di acque, una volta allo scoperto, il primo verso la Villa di San Vincenzo ed al Bisagno, il secondo per il Rivo Torbito alla Marina di Sarzano.
S’alterna a Murteto il Poggio di Santa Maria della Sanità che si allunga fino alla Marina di Sarzano per i balzi di Piccapietra e di S. Andrea, e a questo si alterna Bachernia che manda le acque per un fossato a Soziglia e quindi nel porto. Viene quinto il Castelletto che si prolunga per larga e scoscesa valle fino alle rupi di Carbonara; le sue acque attraversano la Vallechiara per gettarsi in mare a Fossatello. Due rivi fiancheggiano Montegalletto, ultima pendice del Peralto; il Fossato di S. Ugo si precipita a San Giovanni attraverso l’Acquaverde, l’altro più ad occidente vedeva sorgere a fianco alla sua riva il Palazzo del Principe. A completare l’anfiteatro dei colli intervengono a questo punto le alture di Promontorio, che diramano verso l’interno le vette di Airolo e degli Angeli, tutte a cavaliere di Fassolo che ne prende i canali e li scarica in mare.
All’interno del semicerchio, verso la marina, proprio ai piedi di Sarzano dove la falda di questo colle si protende in mare in direzione di occidente a guisa di penisola, spaziava in origine uno specchio di acque marine tranquillo per essere posto al riparo dei venti di scirocco, mezzodì e libeccio. In avanti sulla penisola, detta poi del Molo, circa dietro alla chiesa di San Marco un canale naturale inciso nelle rocce faceva sì che dall’interno del Porto le acque comunicassero un tempo col mare esterno traversando la penisola stessa: da una supplica in data 16 gennaio 1510, riportata dal Podestà, apprendiamo che a quel tempo il canale era ricolmo di arena e però più a nulla giovevole: antiquam illam guletam apud molem sub palacieto comunis per quam mare antiquitus transcurrebat, clausam postea.., et tantum repleta fuit arena.
A cominciare dal fianco settentrionale della penisola del Molo e correndo fino al piede del poggio posto al disotto dell’attuale piazza Principe, la riva del mare era dolce ed arenosa, o come geograficamente suol dirsi spiaggia sottile. Ma da quest’ultimo punto fino all’estremo lembo del promontorio essa era invece ripida ed irta di scogli. Infatti alla radice del Molo, quando ancora non si erano costruiti lo sbarcatoio di piazza Lunga chiamato più tardi dei Cattanei e la Calata di San Marco, il mare vi moriva in lenta spiaggia: risulta che ancora durante il secolo XV la casa e le torri dei Tarigo situate alla radice del Ponte dei Cattanei avevano per confine la spiaggia del mare.
Da questo punto cominciava la riva o Ripa, e quando questa era ancora libera si traeva a secco sull’arena della spiaggia le navi e vi erano scali per la costruzione ed il racconcio delle stesse: quelli posti presso San Pancrazio sono nominati in un atto del 1272, per il quale certo Bonavia di Portovenere, maestro d’ascia, si obbligava di costruirvi un panfilo della lunghezza di 48 goe pari a metri 35,712. Quando il mare facevasi tempestoso le sue onde giungevano a frangersi negli edifici della Ripa invadendone le parti a piano terreno: per rimediarvi già in tempi sconosciuti si erano costruiti kungo la spiaggia stessa certi muri bassi, detti paramuri, di cui è menzione in un decreto consolare del 1133. Immediatamente prossima alla riva del mare era ancora la parte gotica del Palazzo di San Giorgio.
Oltrepassato a Banchi lo sbocco di una chiavica citata nei rogiti medioevali come il Conductus Magnus Susilie, si incontrava presso il Ponte dei Calvi la foce del Fossatello il cui nome è ora conservato nella sola piazza mentre la via che un atto del 1308 ha il titolo di Carrubeus Rectus Fossatelli ha pi mutato l’antico appellativo con quello più moderno di via Lomellini. Il Fossatello nelle carte del XII secolo lo vediamo anche chiamato Flumen Sancti Pancratii, ed il Rivo di Carbonara che ha la foce poco oltre, in prossimità della Porta dei Vacca, era detto altresì Flumen Sanctae Savinae, od anche Sancatae Fidei, dalle omonime chiesuole vicino al suo corso.
Inferiormente alla regione del Campo si protendeva nel mare la spiaggetta dei Rebuffi che era l’unico punto della spiaggia dove era permesso di cavare la zavorra: qui soltanto infatti il mare adunava durante le tempeste quantità di ghiaia e di detriti che ne permettevano la periodica escavazione. Dalla foce del fiume di Santa Sabina la spiaggia del mare si allungava dolce ed arenosa verso occidente intersecata da altri due rivi, quello di Bocca di Bo, Bucce Bovis, e l’altro di Lembregaria, Fossatus Lembregarie sive Oregine, poi detto di Sant’Ugo. Il rivo di S. Tomaso, Fossatus Magnus Sancti Thomae come è indicato in un atto del 1473, e che in più carte è anche chiamato col nome di Fossato del Malpasso, metteva foce aldilà della Glanea o Plagia S. Johannis e del Capo d’Arena, dove poco più in alto venivano innalzate la porta e la torre di San Tomaso.
Percorsa la regione di Fassolo che seguiva immediatamente appresso al rivo di San Tomaso, si incontrava il rivo di Promontorio che precipitava da una cupa valle nella quale in tempi a noi sconosciuti si aprivano quelle cave di pietra nera che gli scultori o piccapietra hanno lavorato per secoli col nome appunto di pietra nera di Promontorio. Le acque del rivo, che dopo il 1626 tolse il titolo di rivo di San Lazzaro, sgorgavano copiose defluendo al mare per un letto sassoso. Le alluvioni alla sua foce avevano formato una piccola spiaggia. Le alluvioni alla sua foce avevano formato una piccola spiaggia.
Finalmente al di là della foce del Rivo di San Lazzaro la falda orientale di Promontorio che ora diciamo di San Benigno tuffavasi in origine ripida e scogliosa nelle acque del mare, ed in linea quasi uniforme fino al Capo di Faro. Parecchie petizioni di cittadini aventi poderi lungh’essa richiedevano di poter costruire in dorso agli scogli emergenti dal mare: un decreto del 21 Luglio 1489 loca uno spazio pubblico alla Chiappella presso la Ripa del mare sopra uno scopulo, testimoniando così della natura rocciosa e frastagliata di questa estrema costa del Porto.
E’ appunto in questi luoghi che si impressero le piste su cui in seguito si fermarono i sentieri e quindi le strade, si alzarono prima le case del villaggio e poi quelle della città, si anellarono le mura con cinte via via più ampie, si irradicarono i moli ogni volta più protesi nel mare, fino a raggiungere la sintesi schematizzata alla Tavola 3 [Quadro schematico d’assieme].
LA PERMANENZA DELLO SCHEMA PLANIMETRICO
La ricostruzione ideale delle città antiche è stata trattata in ogni tempo col più vivo interesse dalle manifestazioni letterarie, lasciandosi spingere nell’ambito della poesia fino alle leggende che ne affidano la fondazione all’intervento divino. Con processo analogo, quando l’origine incerta nei tempi rende impossibile sormontare la difficoltà del rintraccio di una documentazione esauriente la interpretazione storica diviene libera, finisce col far capo alla sensibilità individuale degli autori. Quando alla produzione letteraria segue la scienza archeologica, questa ha per base un contenuto squisitamente positivo che è però suscettibile anch’esso di trasformarsi in inventiva se deve evadere dal materiale scientifico per affidarsi al mondo delle ipotesi per le fasi generatrici prive di fonti controllabili.
Al momento in cui viene citata per le prime volte dagli scrittori greci e latini, Genova appare già costituita nelle sue essenziali funzioni di città e di porto commerciale.
La prima notizia datata si riferisce al 218 a.C, nel quale anno sbarca a Genova il Console P. Cornelio Scipione: ma né questa, né le successive notizie, fino al medioevo, descrivono in alcun modo la struttura della città. Con tale incertezza il processo ricostruttivo basato sugli elementi storici che possediamo, anche se messi a confronto dei luoghi e delle scoperte archeologiche, porta necessariamente col diverso temperamento degli indagatori a risultati assai lontani fra loro. Così vediamo già nell’ambito della Storia a scrittori come l’Oderico, che sul finire del secolo XVIII affronta per primo le questioni relative ai Liguri e all’epoca romana, far riscontro a distanza di un secolo altri come il Belgrano, che si traggono fuori da ogni difficoltà cominciando la storia di Genova a partire dal 1000.
A disegnare il quadro d’assieme dell’antica topografia di Genova s’accinse per primo il Celesia: «Com’è stile dei naturalisti e dei geologi, i quali da pochi frammenti d’ossami giungono a costituire l’intera compagine di quei pachidermi che sparvero dalla faccia del globo, dovrebbe lo storico, nel silenzio di ogni altra memoria, avvalorandosi di una particolarità, di una epigrafe, di un cimelio, di una data, di un nome, farsi scala a rimontare la corrente dei tempi…. un nome topico, la postura di un luogo, una circostanza spiccata, la comparazione con altri popoli, valgono a porgere al sagace investigatore quel filo che lo scorta con pie sicuro fra gli impervi aggiramenti dell’età tramontate» (Celesia, 1886).
Se questo metodo di ricerca appropriato ai naturalisti ha carattere scientifico in quei campi di studio nei quali sia possibile arrivare a definizioni sulla base di forme stabili o di leggi che si lascino riconoscere in modo inequivocabile da classe a classe di elementi, nel tema dei caratteri e dello sviluppo urbanistico delle città, dove le condizioni e le influenze possono essere infinitamente varie, una simile condotta di studio può condurre a conclusioni vicine alla realtà più che altro per pura combinazione. Del che si rende conto lo stesso Celesia dove subito dopo definisce il suo lavoro «un temerario assurdo, neanche forse possibile», togliendo così da sé stesso fiducia alla propria fatica.
A tentativi di tal ordine si contrappongono studi, cioè monografie e compendi che analizzano la città nel suo complesso o nei suoi fattori costitutivi basandosi esclusivamente sui monumenti e sulle documentazioni certe, con metodo scientifico se pure alle volte eccessivamente circoscritto. Sono qui giustamente rinomati gli scritti del Belgrano, del Podestà, del Grosso, ecc., preziosi per la straordinaria quantità di documenti esplorati e citati, ma che appunto in conseguenza di questa severità di metodo o si riducono a illustrazioni della città che non oltrepassano il periodo medioevale (Podestà, 1901), o quando arretrano oltre il 1000 si limitano a studiare argomenti particolari (Podestà, 1913), o trattano l’intero sviluppo accontentandosi di sfiorare gli inizi e la costituzione urbanistica per quanto può essere consentito dal raccordo il più serio delle tradizioni e delle fonti (Grosso, 1926).
Gaetano Poggi, essendosi proposto di stabilire quale doveva essere la città nel suo primitivo impianto e quali trasformazioni abbia in appresso subito nell’ordine topografico ed edilizio, parte dall’assunto che Genova medioevale non sia altro che la continuazione di una Genova antichissima, per cui ogni epoca riproduca fedelmente lo spirito e gli atteggiamenti dell’epoca antecedente (Poggi G., 1914).
Il processo di ricostruzione è ancora retroattivo: comincia a collocare al loro posto i documenti che hanno la propria spiegazione nei fatti medioevali, mettendo invece a parte quegli altri che non presentano punti di contatto con le vicende del medio evo, per esaminarli con criteri d’archeologia romana. Per quadrarne la giustificazione il Poggi viene a presupporre un determinato ambiente, che per non aver riscontro nella città medioevale inventa nell’epoca precedente la forma della città che tale ambiente era capace di contenere.
Se il concetto fondamentale della continuità della personalità storica di Genova è accettabile, perchè davvero essa si mostra « sempre la stessa, colle sue tradizioni mercantili, sempre gelosa delle sue consuetudini e della sua interna autonomia », altrettanto non sono i risultati della ricostruzione quando arrivano a prospettarci senza alcun riscontro storico o archeologico degno di fede una Genova Romana addirittura più ampia della stessa Genova del 1300, che è stata la città la più ricca, più forte, più artistica del medioevo : ciò che è anche in contrasto colla legge di continuità progressiva che il Poggi stesso pone come punto base di tutta la sua trattazione.
Le cause che hanno fuorviato a tale paradossale conclusione possono essere addossate in parte ai documenti scelti per la dimostrazione poi che non possono tutti essere ritenuti inconfutabili, in parte all’interpretazione che di questi documenti è stata fatta, come per esempio per il muro sotto il Palazzo Bianco ritenuto di opera romana mentre si dimostra di costruzione medioevale — ma quello che è da raddrizzare è soprattutto il falsa merito con cui è stata prospettata l’indole vera del traffico commerciale di Genova antica, che è l’errore sostanziale nella interpretazione della Genova Romana fatta dal Poggi.
La ricerca della formazione e del seguente sviluppo strutturale delle città oggi effettivamente costituisce uno degli argomenti maggiori della fase di studio preordinativo nell’urbanistica.
Fino ad un certo punto il processo di ricostruzione è parallelo a quello seguito dagli studiosi di storia e di archeologia: alle notizie storiche si uniscono con ragionato confronto i risultati dei rilevamenti per i quali può essere finora capitato di ricorrere al rilievo dei ruderi affioranti, per lo più quando l’insieme costruttivo non ha avuto più vita ed ha subito soltanto la degradazione del tempo o degli agenti atmosferici — o al rilievo dopo aver proceduto allo scavo del sottosuolo, quando la città ha continuato a vivere ed i detriti delle antiche fabbriche, per alterne vicende dei tempi, hanno contribuito a rialzare il livello del suolo cittadino. La indagine urbanistica moderna si completa aggiungendo a questi vecchi procedimenti il criterio che si può ottenere da un terzo ordine di rilievi basati sull’esame dell’attuale trama dei quartieri cittadini, onde individuare l’insieme pianimetrico degli schemi urbani del passato quando le fabbriche, pur rinnovate più volte, non abbiano sensibilmente variato l’antica planimetria. Ciò si definisce quale fenomeno della permanenza dello schema pianimetrico: per esso gli edifici, pur essendo scomparsi per vetustà o per altre cause, sono stati riedificati nel decorso dei secoli cònservando l’originario schema edilizio, che è quanto dire, e anzi meglio, che la rete stradale tessuta frammezzo agli scomparti e ai blocchi edilizi ha mantenuto inalterato il tracciato originario.
CLASSIFICA DEI TRACCIATI
Dal confronto delle planimetrie delle varie città con tali mezzi ridisegnate quali son state nelle diverse epoche si è allora potuto rintracciare alcune leggi della formazione iniziale. Ai primi passi di questa teoria sta la distinzione che separa il carattere delle città naturali, nate cioè spontaneamente dal caso e successivamene ingrandite, da quello delle citta artificiali o volute, cioè tracciate secondo uno schema prestabilito nel quale si può riconoscere l’impronta di un’unica concezione e talvolta di imo stile. Ma come sempre nelle classificazioni di casi complessi, questa suddivisione « mal corrisponde alla realtà poiché quasi costantemente la città creata, cioè la concezione artificiale e voluta, si innesta ad un centro esistente, sorto naturalmente e più o meno sviluppato, e la progressione è qualcosa problema dell’adattamento ».
E’ tuttavia assai utile definire una tipologia delle città, se non altro per fissare i termini elementari del carattere e dello stile. Gantner osserva in proposito che il tipo di una città nasce da una fusione di dati e circostanze esterne materiali, coll’immagine che il fondatore ha fissato a priori. Gli esempi possono dare casi isolati, sporadici, o costituire gruppi quali prodotto di una scuola o di un’epoca : nella scala delle variazioni si incontrano sistemi nei quali la disposizione è decisamente irregolare per un aderente adattarnento al terreno accidentato o per sottomissione a un nodo centrale di valore materiale o architettonico dominante; e si arriva a disposizioni regolari anche contro le esigenze del terreno. In quest’ultimo caso è chiaro che la volontà del fondatore ha prevalso in modo assoluto malgrado le necessità e le leggi della
natura.
La fondazione di una città riproduce in genere uno schema naturale quando essa è sorta per i vantaggi topografici di un luogo, caratterizzato cioè dall’incontro di piste di spontanea circolazione in un punto che abbia facile alimentazione d’acqua, e sia possibilmente suscettibile di una facile difesa. Quando questa città sorge su terreno mosso è facile constatare che le arterie principali di circolazione si snodano irregolarmente o secondo le curve di livello o dirigendosi perpendicolarmente a queste curve, sia sulla linea di spartiacque, sia sulla linea di thalweg. Queste sono difatti le linee topografiche lungo le quali la pendenza o è nulla, o è la minore; si concepisce perciò subito come esse siano state istintivamente ricalcate da quelli che istituirono la prima circolazione per il trasporto delle merci.
Alle necessità economiche si affiancano le previdenze militari. La linea di difesa la più facile coincide colla cresta della collina situata sulla linea di rottura della falda che ha maggiore declività : è quello che si chiama la cresta militare. Evidentemente lungo di essa si è drizzata la scarpata di terra o il muro di difesa, e quest’opera racchiudente il primo nocciolo della città ha visto il primo cammino di ronda seguirla in parallelo.
Stabilite queste due direttrici di tracciato in certo senso obbligato, le vie secondarie si son da sé poste secondo le normali alle principali, in modo da realizzare i percorsi più brevi.
Invece, dove la creazione è guidata da una volontà personale si rende manifesta senz’altro una concezione da urbanista. Vi si decifra allora il disegno di prevedere l’impostazione degli elementi primordiali del tracciato urbano, il posto di comando, le vie principali, il mercato, le piazze – oltre alla volontà di dare a ciascuno dei capi-famiglia una porzione di terreno in rapporto con i diritti acquisiti e con i mezzi. La struttura della città è anzitutto retta dal desiderio ,di stabilire l’ordine e la disciplina, i tracciati si inquadrano inevitabilmente, a priori, in una forma geometrica.
Risalendo nella preistoria italiana ai raggruppamenti embrionali si ritrova tutta una gamma di schemi che vanno dall’indipendenza la più anarchica alla organizzazione la più rigorosa. Sembra tuttavia possibile riconoscere una grossolana separazione di stirpi nel campo etnico e di strutture in quello urbanistico, se si tiene dietro alle più recenti teorie che tendono a riconoscere in Europa verso il X secolo due gruppi di popoli completamente differenti : da una parte i mediterranei (Liguri, Siculi, Pelasgi), popoli di agricoltori che adoravano gli Dei della vegetazione e le forze emananti dal suolo, che seppellivano i morti entro fosse, che vivevano sotto il regime matriarcale; dall’altra dei settentrionali (Ariani, Celti), nomadi, pastori, praticanti1 la cremazione, adoratori del fuoco e della luce, di diritto patriarcale. Per parte sua lo studio del raggruppamento preistorico sembra confermare queste teorie. Sulle deduzioni del Lavedan possiamo a grandi linee asserire che le popolazioni delle regioni mediterranee lasciavano agire la natura od il caso : al contrario, nell’Europa Occidentale e Centrale era già viva l’idea di organizzare il villagio, subordinandolo a certe preoccupazioni di cui la più evidente ,è quella dell’allineamento.
Sovrapponiamo i nostri tracciati stradali alla configurazione altimetrica del terreno come è stato fatto nella Tavola n. 3: gli andamenti tortuosi delle vie come la Santa Maria di Castello con via Ravecca fino a Ponticello, il vico del Filo che si prolungava nella via di Borgosacco, la salita Sant’Anna che si prolunga nella salita di Bachernia, la salita Rondinella dal Poggio di San Siro a Castelletto per proseguire nella salita Emanuele Cavallo, la salita di San Simone, la salita di Pietraminuta da Prè a Montegalletto per proseguire nella salita di Santa Barnaba, la salita di Oregina, quella di Granarolo e quella di Gesù e Maria, sono immediatamente spiegati dal vedere come essi ricalcano identicamente, colla più stretta aderenza, la linea di rottura sulla dorsale dei rispettivi colli a pendenza continua. Le altre come via Madre di Dio fino alla via Portoria, via Giustiniani con salita del Prione, via Luccoli, via Lomellini, via Lagaccio, lo stesso tronco inferiore di salita Angeli, hanno lo stesso carattere, ma seguendo fedelmente il corso dei rivi o la linea di confluenza nei rispettivi fondovalle.
Dimostrativo in chiaro grado della differenza fra tracciato irregolare e tracciato regolare è il confronto fra le due arterie pressoché parallele che circondano il Porto. Ha ancora un percorso naturale irregolare la via di Sottoripa, che conserva l’andamento liberamente parallelo al lido primitivo del porto anche nelle attuali trasformazioni di via Carlo Alberto e di via Milano. La seconda arteria è costituita dal complesso delle vie che da piazza Banchi portano a piazza Principe una in prosecuzione dell’altra : queste vie sono quelle che debbono aver formato in origine la Ripa vera e propria, prima che gli uomini colle loro opere avessero invaso la spiaggia e il mare – ma il loro percorso è corretto, risulta già da antico sostituito da un tracciato voluto, regolare. Al posto degli archi paralleli al lido, come permangono nella via inferiore, l’uomo ha allineato tratti rettilinei colleganti i punti di convergenza delle vie naturali montane da piazza San Giorgio a piazza Banchi, al poggio sotto San Siro, alla Porta dei Vacca, alla Commenda di Prè, superando il terreno con pendenze e contropendenze come si verifica per la via San Luca, la via del Campo e la via Prè; qui l’intervento del gromatico è manifesto quanto lo è per la zona intessuta sui due Canneti. E questo esempio è tanto più interessante quando si consideri che la via a tracciato naturale irregolare è di data molto più recente di quella a tracciato artificiale.
Nel complesso della rete viaria di Genova non è dunque sufficiente individuare le piste aderenti al terreno per avere lo schema delle arterie originarie, anche se essendo tanto connaturali hanno potuto tramandarsi nei secoli: ma fra esse dobbiamo ricercare quelle autenticamente iniziali se vogliamo in effetti risalire al momento della fondazione.
E. Celesia, Della Topografia primitiva di Genova – Giornale della Soc. di Letture Scientifiche – Genova, 1886; F. Podestà, Il Colle di Sant’Andrea a Genova e le regioni circostanti – Genova, 1901; F. Podestà, Il Porto di Genova dalle origini alla caduta della Repubblica – Genova, 1913; F. Podestà, L’acquedotto di Genova – Genova, 1879; F. Podestà, Una escavazione in porto nel 1597, Genova, 1909; F. Podestà, La torre del Faro o Lanterna, Genova, 1913; Orlando Grosso, Genova nell’Arte e nella Storia, Milano, 1914; Orlando Grosso, Genova – Bergamo, 1926; Gaetano Poggi, Genova Preromana, Romana e Medioevale, Genova, 1914.
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I Liguri intorno al 1200 a.C. (Monin, 1835)
[ulteriori immagini saranno inserite appena verranno pronte]